Tutti scontenti.
In tanti sul piede di guerra.
Le misure governative per la revisione della spesa pubblica (continuano a chiamarla spendign review per darsi un tono o per disorientare il comune cittadino?) delude i più e (probabilmente) non potrebbe essere diversamente in un paese come il nostro gravato da sempre da massicci corporativismi e da una continua resistenza ad ogni sorta di cambiamento.
Per molti (sindacati in testa) più che qualificare la spesa pubblica, il governo tecnico ha soltanto continuato a tagliare linearmente a destra e a manca senza un valido criterio.
I sacrifici alla fine, dicono, cadranno sulle classi più deboli.
Protestano i farmacisti, le Regioni, gli ospedali, gli avvocati, il mondo della scuola.
Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera del 10 luglio ci ricorda di non dimenticare, però, che "la crescita della spesa pubblica non è stata prodotta soltanto dalla costruzione del nostro sistema di welfare, ma anche dall’accoglimento di molte (troppe) richieste che venivano dal Paese.
È in questo modo, anche in questo modo, che la politica è riuscita ad assicurarsi un accettabile grado di consenso in una situazione caratterizzata per anni da fenomeni di forte conflittualità sociale e da una grave minaccia terroristica. Per molto tempo la società italiana è stata inondata da un fiume di denaro pubblico, che ha contribuito a produrre benessere così come l’acqua che irriga i campi fa crescere rigogliosamente ciò che vi è piantato. Il problema naturalmente stava nel fatto che il denaro che stavamo spendendo non lo avevamo.
Si afferma spesso che quella spesa è comunque servita a realizzare una «maggiore giustizia distributiva» (Guido Forges Davanzati, micromega-online). Ma non si vede, ad esempio, quale idea di giustizia distributiva potesse esservi in un aumento dei pubblici dipendenti che (lo ricordava sul Corriere di sabato Guido Melis) ha costantemente privilegiato il Sud. Si trattava di una forma di improprio sostegno al reddito di una parte del Paese; in concreto, peraltro, il sostegno andava a chi aveva la fortuna, o forse i contatti giusti, per farsi assumere.
Ma l’epoca della spesa facile e dello Stato «generoso» non ha solo prodotto il debito pubblico che conosciamo; ha anche alimentato inclinazioni e atteggiamenti difficili da modificare. A cominciare dall’indifferenza di fronte allo spreco in tutte le sue accezioni".
Si afferma spesso che quella spesa è comunque servita a realizzare una «maggiore giustizia distributiva» (Guido Forges Davanzati, micromega-online). Ma non si vede, ad esempio, quale idea di giustizia distributiva potesse esservi in un aumento dei pubblici dipendenti che (lo ricordava sul Corriere di sabato Guido Melis) ha costantemente privilegiato il Sud. Si trattava di una forma di improprio sostegno al reddito di una parte del Paese; in concreto, peraltro, il sostegno andava a chi aveva la fortuna, o forse i contatti giusti, per farsi assumere.
Ma l’epoca della spesa facile e dello Stato «generoso» non ha solo prodotto il debito pubblico che conosciamo; ha anche alimentato inclinazioni e atteggiamenti difficili da modificare. A cominciare dall’indifferenza di fronte allo spreco in tutte le sue accezioni".
Canzone del giorno: Save Your Scissors (2005) - City and Colour
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Sprechi pubblici, amnesia collettiva L’Italia indifferente alla spesa facile.
Com’era inevitabile, crescono le proteste, i malumori, il senso di insicurezza in quell’ampia parte del Paese che, direttamente o indirettamente, è interessata dalla spending review. Dal dipendente pubblico che teme di finire in quel 10% di chi verrà messo in mobilità al medico che vede ridursi i posti di primario in conseguenza della diminuzione dei posti letto ospedalieri; dall’avvocato che ha lo studio (e i clienti) in una delle sedi di tribunale da sopprimere all’albergatore che fin qui riusciva a tirare avanti grazie alla presenza di una sede giudiziaria che presto non ci sarà più. Sono preoccupazioni comprensibili, alle quali del resto il mondo politico e sindacale sta dando voce. Ma sono anche preoccupazioni che si fondano su una amnesia collettiva. Sembriamo aver dimenticato, infatti, quali sono le cause profonde delle misure che oggi si rendono indispensabili. La prima e principale ha a che fare con lo straordinario aumento della spesa pubblica e dunque del nostro debito pubblico, passato da circa il 40% a circa il 120% del Pil nel quarto di secolo che va dal 1970 alla metà degli anni Novanta. Questo evidentemente è un dato che tutti conoscono. Ciò che tendiamo a dimenticare è che la crescita della spesa pubblica non è stata prodotta soltanto dalla costruzione del nostro sistema di welfare, ma anche dall’accoglimento di molte (troppe) richieste che venivano dal Paese.
È in questo modo, anche in questo modo, che la politica è riuscita ad assicurarsi un accettabile grado di consenso in una situazione caratterizzata per anni da fenomeni di forte conflittualità sociale e da una grave minaccia terroristica. Per molto tempo la società italiana è stata inondata da un fiume di denaro pubblico, che ha contribuito a produrre benessere così come l’acqua che irriga i campi fa crescere rigogliosamente ciò che vi è piantato. Il problema naturalmente stava nel fatto che il denaro che stavamo spendendo non lo avevamo.
Si afferma spesso che quella spesa è comunque servita a realizzare una «maggiore giustizia distributiva» (Guido Forges Davanzati, micromega-online). Ma non si vede, ad esempio, quale idea di giustizia distributiva potesse esservi in un aumento dei pubblici dipendenti che (lo ricordava sul Corriere di sabato Guido Melis) ha costantemente privilegiato il Sud. Si trattava di una forma di improprio sostegno al reddito di una parte del Paese; in concreto, peraltro, il sostegno andava a chi aveva la fortuna, o forse i contatti giusti, per farsi assumere.
Ma l’epoca della spesa facile e dello Stato «generoso» non ha solo prodotto il debito pubblico che conosciamo; ha anche alimentato inclinazioni e atteggiamenti difficili da modificare. A cominciare dall’indifferenza di fronte allo spreco in tutte le sue accezioni. Perché ci sono volute le brutali misure del ministro Fornero per costringerci a capire che un Paese che manda in pensione i lavoratori a 60 anni, prima ancora che appesantire i suoi conti, spreca le sue risorse umane? Quanti articoli di denuncia mai ci vorranno perché qualcosa si modifichi in quella colossale fabbrica di posti inutili che è la Regione Sicilia? Quante tonnellate di rifiuti si dovranno spedire all’estero perché una simile dilapidazione di denaro pubblico venga giudicata inaccettabile? C’è da augurarsi che le dolorose misure della spending review, oltre a incidere sulle finanze pubbliche, ci inducano prima o poi a fare anche i conti con interrogativi del genere.
È in questo modo, anche in questo modo, che la politica è riuscita ad assicurarsi un accettabile grado di consenso in una situazione caratterizzata per anni da fenomeni di forte conflittualità sociale e da una grave minaccia terroristica. Per molto tempo la società italiana è stata inondata da un fiume di denaro pubblico, che ha contribuito a produrre benessere così come l’acqua che irriga i campi fa crescere rigogliosamente ciò che vi è piantato. Il problema naturalmente stava nel fatto che il denaro che stavamo spendendo non lo avevamo.
Si afferma spesso che quella spesa è comunque servita a realizzare una «maggiore giustizia distributiva» (Guido Forges Davanzati, micromega-online). Ma non si vede, ad esempio, quale idea di giustizia distributiva potesse esservi in un aumento dei pubblici dipendenti che (lo ricordava sul Corriere di sabato Guido Melis) ha costantemente privilegiato il Sud. Si trattava di una forma di improprio sostegno al reddito di una parte del Paese; in concreto, peraltro, il sostegno andava a chi aveva la fortuna, o forse i contatti giusti, per farsi assumere.
Ma l’epoca della spesa facile e dello Stato «generoso» non ha solo prodotto il debito pubblico che conosciamo; ha anche alimentato inclinazioni e atteggiamenti difficili da modificare. A cominciare dall’indifferenza di fronte allo spreco in tutte le sue accezioni. Perché ci sono volute le brutali misure del ministro Fornero per costringerci a capire che un Paese che manda in pensione i lavoratori a 60 anni, prima ancora che appesantire i suoi conti, spreca le sue risorse umane? Quanti articoli di denuncia mai ci vorranno perché qualcosa si modifichi in quella colossale fabbrica di posti inutili che è la Regione Sicilia? Quante tonnellate di rifiuti si dovranno spedire all’estero perché una simile dilapidazione di denaro pubblico venga giudicata inaccettabile? C’è da augurarsi che le dolorose misure della spending review, oltre a incidere sulle finanze pubbliche, ci inducano prima o poi a fare anche i conti con interrogativi del genere.
“L’insostenibile indifferenza italiana agli sprechi” di GIOVANNI BELARDELLI dal Corriere della Sera del 10 luglio 2012