È la quinta primavera inquieta. Dopo due anni di impennate del Covid (2020 e 2021), la guerra in Ucraina (2022-2024). Dal 7 ottobre 2023 c’è anche la tragedia in Israele e a Gaza, ovviamente. E poi gli attacchi nel Mar Rosso. Ora la carneficina di Mosca, dalle conseguenze imprevedibili. La reazione di quasi tutti noi? Usciamo, lavoriamo, vediamo amici e parenti. Parliamo di soldi, andiamo a passeggio. Giochiamo col telefono. Seguiamo le nostre piccole celebrità. Programmiamo le vacanze di Pasqua e quelle estive. Non è una fuga: è un calmante. L’impressione è che sia in corso una sottile, metodica, inconfessabile rimozione. Quando il peso è eccessivo, la mente trova il modo di scaricarlo. Una legittima autodifesa, non priva di conseguenze. Se non comprendiamo la gravità del momento, e i rischi che corriamo, non troveremo la forza di organizzarci e reagire. Non siamo di fronte alla «chiusura della mente italiana», parafrasando il titolo di un bestseller americano di qualche tempo fa. Ma l’ansia collettiva porta una distrazione progressiva. Uno spostamento tattico dell’attenzione. Cerchiamo consolazione nelle consuetudini, nelle famiglie, nella stagione. La capacità terapeutica della primavera italiana è indiscutibile. Poi, in estate, verranno le ombre, le pergole, i prati, le spiagge, le acque e le terrazze. I precari delle metropoli del mondo, gli immigrati ammassati nelle periferie non possono permettersi il lusso della preoccupazione, ha spiegato su La Lettura l’argentino Miguel Benasayag, filosofo d’ispirazione rivoluzionaria. D’accordo: ma tutti gli altri? I cittadini degli Stati Uniti d’America sono lontani dalle conflagrazioni del pianeta e sono attesi da una scelta epocale (riprovare Donald Trump?). Ma noi, cittadini degli Stati Esauditi d’Europa, che attenuante abbiamo per la nostra distrazione Prendiamo la guerra in Ucraina. A parte pochi fanatici, tutti vorremmo la pace. Il problema è: come ottenerla e mantenerla? Ha detto Anne Applebaum a Lorenzo Cremonesi (Corriere, 24 marzo): «È ingenuo pensare che esista un lato gentile e cordiale di Putin, e sta a noi coltivarlo». Eppure molti italiani accarezzano questa illusione. Rimuovono i fatti: Vladimir Putin, venticinque mesi fa, ha scatenato la guerra perché voleva l’Ucraina. Se non fosse stato respinto — con le armi — due anni fa sarebbe arrivato a Kiev. Qualcuno può negarlo? Il pensiero della guerra disturba e vogliamo allontanarlo: comprensibile. Ma proviamo a ragionare, anche se costa fatica. Se abbandoniamo l’Ucraina, Putin la sottometterà. Siamo certi che si fermerà? Potrebbe avanzare pretese sui Paesi Baltici, sovietici fino al 1991, abitati da minoranze russe. Anche quello gli lasceremmo fare? E se, poi, un giorno toccasse a noi? Come reagiremmo? A questa domanda — teorica, per ora — pochi vogliono rispondere. Anzi, si irritano se qualcuno osa porla. Ma, se non affrontiamo la questione, l’idea (costosa) di rinforzare la difesa comune europea non troverà mai un sostegno popolare. Ascoltiamo continuamente l’invocazione «Basta armi!». Sarebbe meraviglioso, ma ripetiamolo: se ci attaccano, come ci difendiamo? Se in vita nostra non è mai accaduto, è perché siamo protetti da un’alleanza solida, la Nato. Parlare della sua utilità rende impopolari: meglio invocare una generica pace, senza spiegare come garantirla. Rimozioni, illusioni, piccole consolazioni: una combinazione che rischia di costarci cara. Siamo i sovrani del regno di noi stessi. In un piccolo libro di Diego Marani, L’uomo che voleva essere una minoranza, il protagonista sogna «un confine portatile da tracciare intorno a sé per tenere fuori tutti gli altri». La tentazione esiste: case, famiglie e città sono, insieme, luoghi e scudi; forniscono un senso di protezione. Così le abitudini, le tradizioni, l’identità (la politica lo sa, e ne enfatizza l’importanza). Ma tutto ciò non basta, di fronte a guerre, catastrofi e pestilenze. Fino a qualche anno fa, potevamo provare a liquidarle con un’alzata egoista di spalle. Oggi non è possibile: il rumore del futuro è forte e incredibilmente vicino. Turarsi le orecchie non basta. Occorre usare quello che sta nel mezzo: il cervello.
Beppe Severgnini, Corriere della Sera (25/3/2024)