Nell’immediato, il desiderio più pressante era quello di possedere un giradischi e almeno qualche vinile, oggetti cari di cui si poteva godere in compagnia o in solitudine, all’infinito, fino a non poterne più, oggetti che faceva entrare di diritto nella tribù giovanile dei più evoluti, dei liceali benestanti, quelli che indossavano i Montgomery, che chiamavano i genitori “i miei vecchi“ e dicevano bye per dire arrivederci. Eravamo avidi di jazz, di spiritual, di rock’n’roll. Tutto ciò che si cantava in inglese era aureolato di una misteriosa bellezza. Dream, love, heart, parole pure, senza un utilizzo pratico, che restituivano la sensazione di un al di là. Nel segreto della propria cameretta ci si abbuffava dello stesso disco, senza stancarsene, come una droga che pigliava la testa, faceva esplodere il corpo, apriva la porta su un altro mondo fatto di violenza e di amore, un mondo che si sovrapponeva e confondeva con quello di quei parti a cui ancora non avevamo il diritto di andare. Elvis Presley, Bill Halley, Armstrong, i Platters incarnavano la modernità, l’avvenire, e cantavano soltanto per noi, per noi giovani, lasciandosi alle spalle gusti fuori moda dei genitori e l’ignoranza dei buzzurri, Il paese del sorriso, André Claveau e Line Renaud. Ci sembrava di far parte di un circolo di iniziati.
Annie Ernaux, Gli anni (Les Années), Gallimard – 2008
Canzone del giorno: Suspicious Minds (1969) - Elvis Presley
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