«I bambini giocano alla guerra / È raro che giochino
alla pace / perché gli adulti / da sempre fanno la guerra, / tu fai “pum” e
ridi; / il soldato spara / e un altro uomo / non ride più. / È la guerra». I
bambini giocano alla guerra, recita una poesia di Bertolt Brecht, perché i
bambini non sanno come si gioca alla pace. Nessuno ha insegnato loro come si
fa. Giocano alla guerra perché hanno sempre visto i grandi fare questo, ed è
bellissimo “fare pum”. Ma i bambini non sanno che la guerra non è un gioco,
incomincia quando si vuole tutto per sé, o non si riesce a vedere la bellezza
nemmeno nei disegni degli altri bambini. Non sanno ancora, i bambini, che se a
giocare sono i grandi la battaglia non finisce in cucina a fare merenda.
L’esito è solo fame, freddo e paura. Andrebbe riletta questa poesia, meditarla
in queste ore aiuta a decifrare la cronaca delle sofferenze inflitte ai bambini
di Gaza, a gestire la fatica nel guardare i volti dei piccoli israeliani
ostaggi di Hamas, a ricordare i figli ucraini deportati in Russia, a pensare ai
minori affidati alla sorte delle onde nella disperata ricerca di un futuro. Concede
un “oltre”, la poesia, che non è rimozione, ma il tentativo di scongiurare
l’assuefazione a un male senza senso, fissando un ordine morale di
responsabilità; come solo la preghiera può affrontare la grande e terribile
domanda su cosa c’entrino i bambini con la sofferenza, accettando che una vera
risposta non esiste al di fuori della sofferenza stessa. C’è sempre una guerra
nel mondo, un conflitto i cui effetti diventano insopportabili quando le
vittime sono i più innocenti tra gli innocenti. Avviene da secoli, ma oggi è
ancora meno comprensibile: non siamo nell’era ipertecnologica? Quella dei droni
che consegnano gli ordini sulla soglia di casa o dell’intelligenza artificiale
che scrive romanzi, delle auto che si guidano da sole e dei robot che
sostituiranno i e le badanti? Abbiamo la tecnologia e le risorse per mandare i
turisti su Marte, ma siamo ancora qui a fare i titoli su Re Erode, e le stragi
dei bambini. Il mondo in pace guarda con ansia a tutto questo, prova pietà,
piange in silenzio e prega. Probabilmente non ci si chiede abbastanza quanto di
questo lusso derivi da un equilibrio di forze generato dall’ingiustizia. E non
si coglie che questa pace può essere frutto di un armistizio, il patto di un
mondo che la sofferenza dei bambini crede di poterla eliminare non facendoli
più nascere. Le guerre nascono sempre da un problema di risorse, si tratti di
terra o di acqua, di energia o di popolazione. La “Guerra mondiale a pezzi” è
misura anche della crisi climatica e delle tensioni demografiche, la prova di
un’umanità che ha dimostrato di saper giocare alla guerra, ma non riesce e non
vuole “inventare” e poi insegnare ai suoi figli, ai fratelli e alle sorelle di
oggi e di domani, il grande gioco del futuro e della pace. Quello in cui «tutti
i bambini / sono tuoi amici».
Massimo Calvi, Avvenire (29/10/2023)
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