Un Paese che ha il terzo debito pubblico del mondo, 200 miliardi di freschi prestiti europei di cui 122 da restituire, 350 morti al giorno di Covid e una ripresa tutta da consolidare, un Paese così non può permettersi il lusso di un lunedì surreale come quello di ieri. Pareva che gli oltre mille grandi elettori, compresi i capi partito, avessero scoperto all’ultimo momento che c’era da eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi sette anni. È abbastanza incredibile che i leader non si siano ancora riuniti, nonostante siano tutti (tranne la Meloni) nella maggioranza di governo. E la candidatura di Berlusconi, per quanto improbabile, ha rappresentato più un alibi che un ostacolo. Ieri, finalmente, sono incominciati se non altro gli incontri bilaterali, in un’atmosfera sospesa, quasi incantata, che è parsa a tutti i presidenti di Regione catapultati a Palazzo – da Zaia a De Luca, da Fontana a Bonaccini – quanto di più distante dalla vita reale, dagli ospedali, dai centri vaccinazione, dalle attività a rischio chiusura. Certo, la politica ha la sua tecnicalità e i suoi tempi. Ma qui c’è un equivoco di fondo.
Il nuovo presidente della Repubblica è già stato individuato, di fatto, a febbraio. Nel febbraio scorso, però. È evidente che, quando Mattarella ha chiamato l’ex presidente della Banca centrale europea a guidare il governo di responsabilità nazionale, sullo sfondo si intravedeva uno schema di successione sul Colle. È altrettanto evidente che i partiti (con qualche eccezione) Draghi non lo vogliono. Eppure in queste settimane non hanno cercato seriamente una personalità in grado di tenere insieme l’attuale maggioranza, e neppure una che possa eventualmente succedere a Draghi a Palazzo Chigi.
Mai ci si era avventurati così al buio in un’elezione presidenziale. Se le soluzioni alla prima chiama sono state rare, se i Cossiga e i Ciampi non si trovano dietro l’angolo, le altre volte almeno erano in campo i candidati: nel 1992 fu bruciato Forlani, nel 2013 Marini (e poi Prodi); ma nel 2006 si sapeva che alla quarta votazione sarebbe stato eletto Napolitano, e nel 2015 Mattarella. Questa volta gli arcana imperii e i tempi dilatati appaiono particolarmente incomprensibili, visto il momento che vive il Paese. Tanto più che, in realtà, la situazione è abbastanza semplice. Draghi ha mostrato, magari commettendo qualche errore, di essere disponibile per il Quirinale. Se i partiti valutano che sia la candidatura migliore, in grado di garantire gli alleati europei, i mercati e pure i vincitori delle prossime elezioni politiche, non sarà impossibile trovare un’intesa per un governo di fine legislatura. Se invece i leader preferiscono accordarsi su un nome di alto livello, che consenta a Draghi di restare a Palazzo Chigi senza che ne risentano il suo prestigio e la sua autorevolezza, lo facciano adesso.
Non per fretta; per rispetto degli italiani e di se stessi. Sarà l’unico modo per mostrare all’opinione pubblica che l’attuale sistema ha ancora un senso, e resta preferibile far scegliere il capo dello Stato ai grandi elettori piuttosto che ai cittadini, come accade in molte democrazie parlamentari e in molti Paesi europei (e in nessuno di questi, Francia compresa, il capo dello Stato è anche il capo del governo).
Canzone del giorno: The Danger Zone (1991) - Son Seals
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