Che bello rivedere il mondo unito. Che bello tornare a stare tutti insieme. Quando il globo fluttuante è apparso nel cielo sopra lo Stadio olimpico a rappresentare questo ritrovarsi, dopo il lungo tunnel dove ci troviamo ancora, ci siamo guardati intorno. C’erano giornalisti americani, italiani, giapponesi, inglesi, volontari dei Giochi, eccetera. E molti di loro, come noi, erano emozionati. La cerimonia inaugurale della trentaduesima Olimpiade dell’era moderna non è stata la più bella di sempre. All’inizio sembrava avvolta da una patina di mestizia, con lo sguardo catatonico della danzatrice in kimono bianco che simboleggiava le sofferenze e la tristezza imposte all’umanità dalla pandemia. Ma non era questo l’obiettivo che si prefiggeva una non-celebrazione votata per forza di cose alla sobrietà, ai toni bassi e meno indulgenti possibile. E non è questo il senso ultimo dei Giochi giapponesi ufficialmente inaugurati dall’imperatore Naruhito, che si è limitato a recitare la consueta formula, «dichiaro ufficialmente aperti...». Non poteva essere una festa. C’è stata almeno l’onestà di riconoscerlo, per forza o per amore. In caso contrario il popolo ospitante, stremato da un anno e mezzo di sacrifici, non avrebbe capito. E si sarebbe infuriato ancora di più. [...] Queste Olimpiadi sono straniere a casa loro, e bisogna anche farsene una ragione, lo sarebbero state in qualunque altro Paese alle prese con questo maledetto virus, altro che il medagliere. L’unica strada per inaugurare i Giochi era una cerimonia che ripercorresse quello che è stato finora. Nelle immagini proiettate sui mega schermi per ricordare il peggiore anno della nostra vita c’era la nostra piazza del Duomo, nel senso di Milano, deserta come lo è stata per mesi interi. Dovremmo sempre ricordarci cosa è stato il 2020, quei mesi terribili di marzo e aprile. E capire che siamo cambiati, anche se magari non ce ne rendiamo conto. Noi, e il resto del mondo. [...] In un Paese molto nazionalista, con una scelta coraggiosa è stata fatta accendere la fiamma alla tennista Naomi Osaka, una cittadina del mondo cresciuta negli Usa da padre haitiano e madre giapponese. Una donna nuova, come lo saranno i nostri figli, che tremava per l’emozione. Perché alla fine, per quanto ferite dalla pandemia, le Olimpiadi rimangono sempre il sogno dei ragazzi che si allenano nei campetti dietro la centrale elettrica, che corrono sugli altipiani, che sudano da soli durante il lockdown. E per quanto strano e complicato possa essere, ancora una volta siamo tutti qui.
Marco Imarisio, Corriere della Sera (24/7/21)
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