nuovigiorni

"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

venerdì 18 settembre 2020

Tatuati

Perdonatemi se scrivo da contadino, o da cronista con pochi mezzi. Sono più pronto a raccontare a voce i fatti, i luoghi, che a scriverne. Anche perché patisco e soffro l’ordine della scrittura rispetto alla gravità, al non riassumibile. Non ho letto nulla, se non buttandoci un occhio, circa la morte di Willy che si chiamava come un mio antichissimo amico stroncato dall’eroina. Non ho voluto leggere niente perché so tutto. Quando da ragazzino passavo sotto Artena (ex Montefortino, roccaforte volsca), la zia zoppa rimasta illibata diceva: «Qui piantano i fagioli e nascono i briganti». Non ci credevo, perché il paese a forma “perfetta”, aveva gli asini che salivano fino in cima; e le case ammonticchiate a presepe. (...) A vederli, i Bianchi, sono tatuati come il territorio che si sono illusi di dominare. Ho notato pose senza fisicità. Senza sensualità. Del resto chi (e non parlo solo degli indagati) passa il tempo in palestra, a pestare il prossimo, a sbronzarsi, quando fa l’amore? Per farlo serve tempo, abnegazione, vera potenza, non muscoli gonfi. Altrimenti ci si riduce alla virtualità o agli scampoli onanistici e frettolosi. Quindi: non si fa con l’altra o con l’amato; ma da soli. Chiusi nel proprio narcisismo esibizionistico. (...) L’inabissarsi morale riguarda l’Italia (non mi avventuro nel mondo). Tutti noi siamo colpevoli, come ha detto un ristoratore di Colleferro. Noi abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia. La scuola è polverizzara da decenni. Accumula carte e banchi. Ma nessun docente chiede il nome e il cognome dello studente. Nessuno ricorda che la prima lezione va fatta sull’importanza del proprio nome, sul luogo da dove si proviene. Tutti noi siamo orfani, nessuno è più padre. Ecco che allora i Bianchi di turno hanno una prateria di tatuaggi dove cavalcare: cioè uno spazio senza confini. In altre parole: senza legge. Accennavo alla «ferocia della realtà». I nostri padri e nonni, immortalati dal neorealismo dovevano scontrarsi, dovevano combattere. E combattevano per la legge del padre, faccia a faccia. Ora non più. Basta il narcisismo isterico, i muscoli senza lavoro, l’oro come metallo che scintilla e non come oggetto sacro, eredità degli avi, scambio di fedeltà, sacrificio dei muratori dei cinquanta per comprare uno Zenit o un Longines al figliolo il giorno della cresima. Nessuno di questi che ballano sui corpi sanno che l’oro è degli imperatori. Il loro è falso. Dunque basta affibbiare la ferocia perversa al razzismo, eccetera eccetera. Per paradosso il Paese al mondo, l’Italia, dalle mille capitali, dai mille palazzi, da chi sapeva fare scarpe a opera d’arte, tavoli e sedie a opera d’arte, ringhiere e letti di ferro a opera d’arte; questo nostro Paese è ancora l’unico al mondo che può ricondurre alla legge, ristabilendo l’onore del nome, recuperando il sacrificio, la disciplina, la rinuncia. Non sono i film criminali che spingono all’emulazione. È l’assenza che lo fa. Tocca tornare come i ragazzini poveri sotto i bombardamenti di Vicenza in Il cielo è rosso di Giuseppe Berto. Tocca che le antologie scolastiche ricordino che tutti i grandi scrittori italiani sono partiti dai paesi, dalla provincia. Ecco, noi dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, dove siamo campioni. Non voglio usare la ghigliottina, che resta un gioiello perfetto; la Vedova, inventata per liberare gli uomini dalle antiche schiavitù. Eppure, simbolicamente, essa è l’oggetto più attuale. Almeno per tagliare la testa ai fatui diritti e ripristinare i doveri.

Aurelio Picca, La Repubblica (16/9/20)

Canzone del giorno: Outskirts of Love (2015) - Shemekia Copeland
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