Canzone del giorno: Arrogance Blues (2011) - Scoundrels
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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
Oggi ancora i barbari sono intorno a noi. Quasi tra noi. Ma noi, mi sembra, noi italiani in particolare ma certo non solo noi ci rifiutiamo di vederli. Magari non ne attendiamo con ansia l’arrivo, questo no, ma ci culliamo nell’idea che non esistano, facciamo come se non esistessero. I barbari odierni si chiamano Putin, Lukaschenko, Erdogan, Xi Jinping, Assad , Khamenei, Kim Jong-un, Al-Sisi. Governano Stati quasi sempre grandi e potenti, e i loro tratti principali sono il cinismo e la spregiudicatezza con cui si muovono sulla scena internazionale all’unico scopo di allargare il proprio potere o di conservarlo a qualsiasi prezzo. All’interno dei propri Paesi arrestano, deportano, torturano, fanno sparire nel nulla, e non ci pensano un istante ad eliminare chiunque si opponga ai loro voleri. Tutti i mezzi sono buoni: dal campo di concentramento, ai gas asfissianti, ai centri di «rieducazione». (...) Ma perché le cose stanno così? Perché questa sostanziale indifferenza che assomiglia spesso a un vero e proprio ottundimento etico-politico? Perché questa costante sottovalutazione della portata di quanto accade, della sua minaccia per i nostri interessi e i nostri valori? Le ragioni sono molte, ma quella che tutte le riassume, la principale, consiste in una forma di clamorosa miopia storica che produce un altrettanto clamoroso autoinganno. I popoli dell’Occidente si credono ancora il centro del mondo. A dispetto delle idee internazionalistico-
Ernesto Galli Della Loggia, Il Corriere della Sera (7/9/2020)
Perfino il diluvio universale
Non durò in eterno.
Un giorno si dispersero
Le acque nere. Certo, ben pochi
Durarono più a lungo!
Ma lo sapete in che modo entriamo solitamente nella letteratura? La conoscete la porta d’ingresso naturale della letteratura? È il viso e la voce di colui o colei che ci racconta la nostra prima storia. Eccolo, il portone da cui la stragrande maggioranza dei lettori entra nella letteratura. Il bambino nasce, il bambino vive, il bambino non vuole lasciarci per andare a dormire. Non gli piace l’idea di lasciare la vita, anche solo temporaneamente. Il letto è una minaccia che gli strappa urla disperate. Per abbandonarsi al sonno ha bisogno di una compagnia all’altezza della nostra, che sia altrettanto viva, altrettanto preziosa, altrettanto intima della nostra. Una compagnia che sia altrettanto noi di noi. La bella storia che mi racconta la mamma è la mamma. La virtù principale di un racconto è il narratore. Ascoltando quella storia, sono disposto ad addormentarmi. Con la voce di papà o della mamma che mi gonfia le vele, allora sì, sono disposto a imbarcarmi sul vascello del sonno. La letteratura la fanno in primo luogo coloro che si chinano sulla culla del bambino per popolarla dell’equipaggio dei sogni: re, regine, fate, streghe, porcellini, lupi, orchi, burattini con il naso sempre più lungo a furia di bugie, guerrieri greci, marziani, Marcovaldi, Harry Potter, ecco l’equipaggio della nave notturna. È così che cominciamo a leggere senza saper decifrare nemmeno una lettera. Ed è qualcosa di gratuito.Di quotidiano. Di normale. È amore. Ed è già la letteratura. (...) E poi, in fondo, che cos’è un lettore, o una lettrice? Un lettore, una lettrice, mentre leggono, mentre sono immersi in un bel romanzo, diventano ciò che non sono più: non più un insegnante, non più un’editrice, non più un contadino, non più un’infermiera, non più un operaio, non più un’avvocata, non più un meccanico, non più una disoccupata, non più un gangster, non più un poliziotto, non più un cittadino, non più un’elettrice, non più un malato, non più una vedova, non più un padre, una madre, un marito, una moglie, un figlio, una figlia. Un lettore è ciò che resta di noi quando leggiamo, e che resiste a qualunque definizione. È la libertà pura e semplice.
Daniel Pennac, Robinson (La Repubblica - 4/7/2020)
Perdonatemi se scrivo da contadino, o da cronista con pochi mezzi. Sono più pronto a raccontare a voce i fatti, i luoghi, che a scriverne. Anche perché patisco e soffro l’ordine della scrittura rispetto alla gravità, al non riassumibile. Non ho letto nulla, se non buttandoci un occhio, circa la morte di Willy che si chiamava come un mio antichissimo amico stroncato dall’eroina. Non ho voluto leggere niente perché so tutto. Quando da ragazzino passavo sotto Artena (ex Montefortino, roccaforte volsca), la zia zoppa rimasta illibata diceva: «Qui piantano i fagioli e nascono i briganti». Non ci credevo, perché il paese a forma “perfetta”, aveva gli asini che salivano fino in cima; e le case ammonticchiate a presepe. (...) A vederli, i Bianchi, sono tatuati come il territorio che si sono illusi di dominare. Ho notato pose senza fisicità. Senza sensualità. Del resto chi (e non parlo solo degli indagati) passa il tempo in palestra, a pestare il prossimo, a sbronzarsi, quando fa l’amore? Per farlo serve tempo, abnegazione, vera potenza, non muscoli gonfi. Altrimenti ci si riduce alla virtualità o agli scampoli onanistici e frettolosi. Quindi: non si fa con l’altra o con l’amato; ma da soli. Chiusi nel proprio narcisismo esibizionistico. (...) L’inabissarsi morale riguarda l’Italia (non mi avventuro nel mondo). Tutti noi siamo colpevoli, come ha detto un ristoratore di Colleferro. Noi abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia. La scuola è polverizzara da decenni. Accumula carte e banchi. Ma nessun docente chiede il nome e il cognome dello studente. Nessuno ricorda che la prima lezione va fatta sull’importanza del proprio nome, sul luogo da dove si proviene. Tutti noi siamo orfani, nessuno è più padre. Ecco che allora i Bianchi di turno hanno una prateria di tatuaggi dove cavalcare: cioè uno spazio senza confini. In altre parole: senza legge. Accennavo alla «ferocia della realtà». I nostri padri e nonni, immortalati dal neorealismo dovevano scontrarsi, dovevano combattere. E combattevano per la legge del padre, faccia a faccia. Ora non più. Basta il narcisismo isterico, i muscoli senza lavoro, l’oro come metallo che scintilla e non come oggetto sacro, eredità degli avi, scambio di fedeltà, sacrificio dei muratori dei cinquanta per comprare uno Zenit o un Longines al figliolo il giorno della cresima. Nessuno di questi che ballano sui corpi sanno che l’oro è degli imperatori. Il loro è falso. Dunque basta affibbiare la ferocia perversa al razzismo, eccetera eccetera. Per paradosso il Paese al mondo, l’Italia, dalle mille capitali, dai mille palazzi, da chi sapeva fare scarpe a opera d’arte, tavoli e sedie a opera d’arte, ringhiere e letti di ferro a opera d’arte; questo nostro Paese è ancora l’unico al mondo che può ricondurre alla legge, ristabilendo l’onore del nome, recuperando il sacrificio, la disciplina, la rinuncia. Non sono i film criminali che spingono all’emulazione. È l’assenza che lo fa. Tocca tornare come i ragazzini poveri sotto i bombardamenti di Vicenza in Il cielo è rosso di Giuseppe Berto. Tocca che le antologie scolastiche ricordino che tutti i grandi scrittori italiani sono partiti dai paesi, dalla provincia. Ecco, noi dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, dove siamo campioni. Non voglio usare la ghigliottina, che resta un gioiello perfetto; la Vedova, inventata per liberare gli uomini dalle antiche schiavitù. Eppure, simbolicamente, essa è l’oggetto più attuale. Almeno per tagliare la testa ai fatui diritti e ripristinare i doveri.