Quanto più si avvicina il voto per le elezioni presidenziali
americane, tanto più Donald Trump sembra essere convinto che la riconquista
della Casa Bianca dipenda dal suo duello con la Repubblica popolare cinese. Ha
usato l’arma dei dazi per dare un duro colpo alla sua economia. L’ha accusata
di avere diffuso il coronavirus nel mondo. Ha cercato di estromettere dai
mercati internazionali, con l’accusa di spionaggio, il suo colosso
dell’informatica (Huawei). Ha chiuso con la stessa motivazione il consolato cinese
di Houston, una città del Texas che ha 2.325.ooo abitanti, una importante
industria energetica e aeronautica, un porto molto utile per gli scambi
commerciali con l’America Latina. La Cina ha reagito chiudendo il consolato
americano di Chengdu, una città non lontana dal Tibet che fu visitata da Marco
Polo e ha 14 milioni di abitanti; ma Pechino sinora ha generalmente evitato di
raccogliere tutte le provocazioni provenienti da Washington. Dietro queste
baruffe diplomatiche vi è una storia che comincia dopo la fine della Seconda
guerra mondiale, quando l’intero continente cinese era teatro di una guerra
civile tra le forze nazionaliste del generale Chiang Kai-shek e quelle
comuniste di Mao Zedong. Gli Stati Uniti sostenevano già da alcuni anni Chiang
e il loro presidente, Franklin D. Roosevelt, si atteggiò a grande protettore
ottenendo che la Cina nazionalista avesse un seggio permanente al Consiglio di
Sicurezza dell’Onu. Ma i comunisti cinesi batterono i nazionalisti e il 1°
ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare. La
vittoria di Mao fu vissuta in America come una sconfitta e il commento più
frequente della opinione pubblica in quel periodo fu: «Abbiamo perso la Cina».
Noam Chomsky, brillante linguista e teorico della comunicazione al
Massachusetts Institute of Technology, osservò ironicamente che per perdere
qualcosa occorre anzitutto esserne proprietari. Ma l’esperienza fu comunque
umiliante e, come spesso accade in queste vicende, cominciò un palleggio fra
politici che si attribuivano a vicenda le responsabilità della sconfitta. Passò
qualche anno e un presidente americano, Richard Nixon, consigliato da un
brillante diplomatico (Henry Kissinger) suggerì aperture che Mao e il suo
ministro degli Esteri Zhou Enlai colsero rapidamente. Restava il problema del
seggio cinese all’Onu e anche quello fu risolto quando gli Stati Uniti, nel
1971, capirono che spettava ormai alla Repubblica popolare. Oggi il problema
sembra essere prevalentemente americano. Trump vuole segnare qualche punto
contro la Cina e spera di arrivare alle urne dopo un evento che possa essere
presentato ai suoi elettori come un successo. Temo che per evitare il peggio in
questo momento non ci sia altra soluzione fuor che quella di riporre fiducia
nel buon senso cinese.
Sergio Romano, Corriere della Sera (2/8/2020)
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