Le ragioni che conducono una persona a compiere un gesto radicale come il suicidio sono sempre talmente imperscrutabili che non autorizzano nessuno ad avanzare ipotesi né, tantomeno, a esprimere pareri. Impossibile dire se c’è uno stringente rapporto di causa-effetto fra la tragica decisione del vigile e la valanga di insulti che lo ha travolto sui social da qualche giorno. Semmai ciò su cui non si può — anzi non si deve — tacere è l’insopportabile violenza con cui i social hanno iniziato e poi continuato a vomitare improperi anche dopo le pubbliche scuse. Del resto, parlare dei social come fossero entità astratte rischia di alleviare la responsabilità dei singoli individui che, certo esaltati e autoalimentati dal delirio collettivo, si godono l’ebbrezza di saltare sul carro urlante della calunnia e dell’offesa indiscriminata: naturalmente ciascuno ben nascosto (e protetto) dietro la maschera dell’anonimato.
E dietro il pretesto di una giusta causa: la difesa del debole (nella fattispecie il disabile cui è stato sottratto, a quanto pare per sbaglio, lo spazio del parcheggio), al punto da affossare il «colpevole» senza pietà e senza neanche concedergli il beneficio delle scuse. Ma non c’è giusta causa più ingiusta se non si limita alla critica e si rovescia in furore. Siamo troppo abituati alla protervia di chi non ammetterebbe mai di aver sbagliato da non riuscire a distinguere tra un oltraggio prepotente e un sincero pentimento? Sempre più di fronte all’arrembaggio vile e cieco dei social — tra menzogne e fango — viene voglia di seguire l’esempio di Stephen King, il re dell’horror che, non sopportando più l’horror di Facebook, ha deciso di salutare tutti e sottrarsi.
Paolo Di Stefano, Corriere della Sera (5/2/2020)
E dietro il pretesto di una giusta causa: la difesa del debole (nella fattispecie il disabile cui è stato sottratto, a quanto pare per sbaglio, lo spazio del parcheggio), al punto da affossare il «colpevole» senza pietà e senza neanche concedergli il beneficio delle scuse. Ma non c’è giusta causa più ingiusta se non si limita alla critica e si rovescia in furore. Siamo troppo abituati alla protervia di chi non ammetterebbe mai di aver sbagliato da non riuscire a distinguere tra un oltraggio prepotente e un sincero pentimento? Sempre più di fronte all’arrembaggio vile e cieco dei social — tra menzogne e fango — viene voglia di seguire l’esempio di Stephen King, il re dell’horror che, non sopportando più l’horror di Facebook, ha deciso di salutare tutti e sottrarsi.
Paolo Di Stefano, Corriere della Sera (5/2/2020)
Canzone del giorno: Fear (1989) - Lenny Kravitz
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