Il business delle privatizzazioni
dei beni pubblici, nel corso degli ultimi venti anni, è stato analizzato in
lungo e in lardo da studiosi, esperti ed economisti.
La regolamentazione del settore
autostradale, approvata dal Parlamento italiano dieci anni fa attraverso la
convenzione con la società legata alla famiglia Benetton, è oggi vista come la
punta nefasta dell’iceberg generato dalla stagione delle privatizzazioni se la
si accosta alla tragedia di Genova e alle tante problematiche del degrado
infrastrutturale del nostro paese.
Nadia Urbinati (Repubblica del
17/8), docente nel Dipartimento di Scienze politiche alla Columbia University,
riassume cos’è accaduto in questi anni: “Degrado etico e ambientale e caduta di
responsabilità pubblica e politica verso i beni pubblici sono andati di pari
passo. Sono anche l’esito di una politica radicale di privatizzazioni del
patrimonio pubblico che dalla fine del secolo scorso ha segnato tutti i
governi, al di là di sigle e maggioranze. E ha goduto di legittimità per
l’incontro di due fenomeni concomitanti: la scoperta di tangentopoli e la
conversione al liberismo della sinistra post marxista. (…) Tangentopoli sembrò
giustificare la politica delle privatizzazioni con un argomento che era il
perno della retorica thatcheriana e reaganiana: la politica tende a infiltrarsi
dove ci sono risorse, togliendo le quali si toglierà incentivo alla corruzione.
Meno Stato significava meno opportunità di corruzione”.
Naturalmente affinché ciò potesse
realizzarsi l’impostazione del programma delle privatizzazioni, prevedeva
(prevede?) una serie di vincoli necessari a evitare distorsioni nel processo di
vendita (o di concessione), nonché l’applicazione di norme sulle condizioni di
trasparenza e seri controlli.
Le imprese a partecipazione
statale erano agonizzanti, la corruzione imperversava e, quindi, soltanto una
classe imprenditoriale moderna, potrebbe eva sostenere adeguati investimenti per la
gestione dei beni pubblici: “Maggiore efficienza delle imprese private e lotta
alla corruzione – questo combinato doveva essere l’esito delle privatizzazioni.
Il paradosso di fronte al quale ci troviamo – non oggi, ma che con Genova ha
raggiunto livelli tragici – sta nel fatto che né l’efficienza né la
neutralizzazione delle ragioni della corruzione sono seguite alla massiccia
cura del dimagrimento del pubblico. (…) La questione è molto nostrana e mette
in primo piano la decadenza etico-politico della nostra classe dirigente,
statale ed economica. Controlli laschi o colpevolmente poco monitorati,
persistenza di rapporti opachi in una pletora di agenzie e responsabilità che
lasciano aperti ampi varchi alla corruzione: tutto questo impone di rivedere il
rapporto tra pubblico e privato, per restituire al pubblico una funzione direttiva
e di controllo diretto”.
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