"...Insomma, come avete capito da questo racconto: una vita assieme e però mai d’accordo.
Eppure mai nemici davvero, anzi, umanamente amici: con Emma in particolare, ma anche con l’impossibile Marco.
Io gli ho voluto bene, e credo anche lui me ne volesse. Eravamo sempre contenti quando ci capitava di incontrarci.
Riconosco i suoi meriti per aver reso popolari, di pubblico dominio, problemi su cui nessuna forza politica si è mai impegnata a sufficienza, la questione carceraria innanzitutto.
La sua onestà e la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo.
Se abbiamo molto litigato è perché ci ha diviso una cultura politica che per ognuno di noi era irrinunciabile e l’una dall’altra per molti aspetti distante, ma mai tanto da non vederci, alla fin fine, dalla stessa parte della società. Diversa, per via di una visione della democrazia: come libertà individuale assoluta per lui, il primato del “noi” sull'”io”per me.
Ma santiddio: si è trattato sempre di un confronto politico serio; ed è per questo che ora che è scomparso provo non solo dolore personale, ma anche tristezza politica: per la nostalgia di un tempo in cui noi quasi novantenni abbiamo vissuto, che è stato un tempo bellissimo, perché bellissima è la politica. Quando è veramente politica. Lo è quando ognuno avverte il dovere, la responsabilità, di impegnarsi a rendere il mondo migliore.
Marco Pannella va ricordato per questo; ed è molto".
Luciana Castellina, Il Manifesto, 20 maggio 2016
Canzone del giorno: Disobey (2011) - Kate Havnevik
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Luciana Castellina, Mai d'accordo, mai nemici
Il Manifesto del 20 maggio 2016
Credo di essere la persona ancora vivente che ha conosciuto da più tempo Marco Pannella, molti dei nostri amici coetanei essendo già passati altrove (sicuramente in paradiso), i più giovani non avendo avuto l’aspro privilegio di una amicizia/inimicizia lunga come la nostra, cominciata addirittura nell’anno accademico 1947/’48. Ci siamo incontrati al primo anno della facoltà di giurisprudenza di quella che oggi viene chiamata La Sapienza, ma allora semplicemente Università di Roma, perchè a quei tempi ce n’era una sola e non occorreva specificare. Era ancora piena di fascisti, anche piuttosto picchiatori, riuniti nel gruppo “Caravella”, e un bel po’ di cattolici molto moderati, capeggiati da Raniero La Valle (ora, più a sinistra di me, per fortuna). Sia io che Marco eravamo dall’altra parte, laici e antifascisti: ma io ero già comunista, lui liberal-democratico.
Siamo restati così per tutta la vita.
Cominciammo subito come avversari: c’erano le prime elezioni per l’Interfacoltà, il parlamentino studentesco, e io concorrevo candidata insieme ad Enrico Manca, socialista (poi dirigente di primo piano del Psi e anche presidente della Rai ), per la lista Cudi (centro universitario democratico italiano, in cui si identificava tutta la sinistra), lui per la lista cui aveva dato, come abitudine, un nome stravagante: “Il Ciuccio”. Che era però emanazione della già assai famosa Unione Goliardica, l’Ugi.
Di questa organizzazione Marco fu presidente per un decennio ed ebbe il merito di politicizzarla, sicché è proprio dalle sue fila che uscì negli anni ’60 quasi tutto il ceto dirigente laico della prima Repubblica (per il bene e per il male del paese). Anche noi comunisti finimmo per confluire nell’Ugi a metà degli anni ’50, quando la divisione del mondo, che dopo il 18 aprile ’48 ci aveva confinato nella parte esclusa, si frantumò e anche nelle Università diventammo normali. Vi entrai anche io, superando con qualche difficoltà l’odio che l’Ugi mi aveva lasciato al suo primo incontro importante: al primo congresso nazionale dell’Unuri (il parlamentino nazionale studentesco), quando osai prendere la parola e fui accolta da un coro maschile (di femmine non ce n’erano quasi) che mi gridò «passerella passerella». Intervenire per una donna era come fare lo streap tease, per fortuna avevo la pelle dura altrimenti non avrei più parlato per tutta la vita. Marco, comunque – sebbene presidente – con quelle schiamazzate non solo non c’entrava, ma fu proprio lui a redimere l’organizzazione e gliene rendiamo tutti merito.
Della questione femminile anzi si è per tutta la vita occupato molto, soprattutto da quando nacque il Partito radicale e all’orizzonte comparve Emma.
Proprio per via di divorzio e poi aborto ci siamo ritrovati con Marco, con cui posso dire di aver trascorso quasi l’intera vita fianco a fianco. Prima nelle battaglie universitarie, cui sia io che lui abbiamo partecipato in prima persona fino in tarda età, lui perché insostituibile leader dell’Ugi, io perché direttore di “Nuova Generazione”, cui, essendo il settimanale della federazione giovanile comunista, correva l’obbligo di seguire da vicino le vicende studentesche. In seguito, salvo una breve “vacanza” a cavallo fra i ’50 e i ’60 (quando Marco si trasferì a Parigi e molto e proficuamente si occupò di Algeria) per via, dell’esplodere della questione divorzio, quando i radicali furono la punta di diamante della battaglia a favore del primo progetto di legge firmato dall’onorevole socialista Loris Fortuna.
Combattemmo ancora una volta sullo stesso fronte, ma ancora una volta litigando. Io lavoravo a Botteghe Oscure nella sezione femminile con Nilde Jotti, impegnate a convincere un assai conservatore Pci che la questione era matura, e però ben convinte che se il diritto a rompere il matrimonio non fosse stato accompagnato da una riforma del codice familiare che riconoscesse alla donna qualche diritto (alla casa, al riconoscimento monetario del suo apporto all’economia domestica anche quando casalinga, ecc.) la eventuale vittoria sarebbe stata un disastro per la grande maggioranza.
Non fummo d’accordo neppure sull’aborto, per il quale, tuttavia, ci battemmo di nuovo insieme: i radicali volevano di più, noi del Manifesto-Pdup considerammo la legge ottenuta – la più avanzata di tutta Europa perché l’interruzione di maternità veniva mutualizzata e dunque garantiva le donne prive di mezzi finanziari – come qualcosa da difendere; e infatti così ci schierammo quando poi i clericali promossero il referendum per la sua abolizione.
Nel frattempo, nel 1976, eravamo entrati alla Camera dei Deputati: i radicali con 4 deputati, noi, con la lista di sinistra chiamata Democrazia Proletaria, con 6.
Gruppi così minuscoli in parlamento non si erano ancora visti mai e non c’erano nemmeno i locali per alloggiarli. A lungo i funzionari cercarono di convincerci a stare tutti e 10 assieme: rifiutammo con decisione da ambo le parti e l’amministrazione di Montecitorio fu costretta ad erigere un muro divisorio in un ampio ambiente, sfrattando fra l’altro il povero Bozzi, a capo di uno storicissimo partito, quello Liberale, che però, in quella tornata di deputati ne aveva avuto solo 2.
(Battuta, credevamo definitivamente, la Legge Truffa del 1953, eravamo anni luce dall’ipotizzare che sarebbe un giorno arrivato l’Italicum a privare il paese dell’apporto di gente come noi).Il periodo più aspro del mio rapporto con Marco Pannella ebbe inizio qualche anno più tardi, nel 1979, quando tutti e due ci ritrovammo nel primo Parlamento europeo eletto direttamente.
Anche se per cinque anni, per la prima volta, restammo nel medesimo gruppo. Che tuttavia, per prudenza e ben consapevoli delle nostre differenziate visioni del mondo, decidemmo di chiamare “Gruppo di coordinamento tecnico”. Per sottolineare che quanto ci univa era solo il bisogno, nel senso che il regolamento di Strasburgo non consentiva mini aggregazioni. Insieme anche ai nazionalisti fiamminghi, a Antoinette Spaak dissidente socialista belga e a un deputato irlandese vicino all’Ira, abbiamo attraversato la prima legislatura della nuova istituzione dividendoci su un sacco di cose: su Arafat, contro cui i radicali organizzarono picchetti quando per la prima volta venne al Parlamento europeo ospite del gruppo socialista; e poi sul voto per il riconoscimento dell’African National Congress di Nelson Mandela ( ancora in carcere). Ambedue le volte perché guerriglieri, in paesi – Israele e Africa del sud – dove c’era un bel parlamento.
Sono stati scontri aspri, così come quello sul finanziamento dei partiti e in contrasto con i sindacati, definiti “Trimurti”.
Insomma, come avete capito da questo racconto: una vita assieme e però mai d’accordo. Eppure mai nemici davvero, anzi, umanamente amici: con Emma in particolare, ma anche con l’impossibile Marco.
Io gli ho voluto bene, e credo anche lui me ne volesse. Eravamo sempre contenti quando ci capitava di incontrarci.
Riconosco i suoi meriti per aver reso popolari, di pubblico dominio, problemi su cui nessuna forza politica si è mai impegnata a sufficienza, la questione carceraria innanzitutto.
La sua onestà e la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo.
Se abbiamo molto litigato è perché ci ha diviso una cultura politica che per ognuno di noi era irrinunciabile e l’una dall’altra per molti aspetti distante, ma mai tanto da non vederci, alla fin fine, dalla stessa parte della società. Diversa, per via di una visione della democrazia: come libertà individuale assoluta per lui, il primato del “noi” sull'”io”per me.
Ma santiddio: si è trattato sempre di un confronto politico serio; ed è per questo che ora che è scomparso provo non solo dolore personale, ma anche tristezza politica: per la nostalgia di un tempo in cui noi quasi novantenni abbiamo vissuto, che è stato un tempo bellissimo, perché bellissima è la politica. Quando è veramente politica. Lo è quando ognuno avverte il dovere, la responsabilità, di impegnarsi a rendere il mondo migliore.
Marco Pannella va ricordato per questo; ed è molto.