La storia sul trasformismo nostrano è sempre la stessa. Chi abbandona, in Parlamento, l'originario partito ci tiene a precisare che lo fa per sostenere i propri ideali. I suoi "vecchi amici", invece, diranno che ha preferito accomodarsi, anzi salire, sul carro dei vincitori. A periodi alterni, destra e sinistra, osannano o denigrano i deputati e senatori che decidono di passare al partito avverso.
Il costituzionalista Michele Ainis, su L'Espresso, dedica la sua rubrica settimanale al fenomeno del "transfuga" parlamentare e ci ricorda che negli ultimi due anni "i cambi di casacca" sono stati già trecento.
Fermo restando l'importanza di non stravolgere l'art.67 della nostra Costituzione che garantisce la libertà di espressione più assoluta ai parlamentari proprio perchè, rappresentando la Nazione, esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato, è fuori di dubbio che una via d'uscita sia più che mai necessaria.
Ainis invita tutti a non rassegnarci: "Il nostro paradiso, e al contempo il loro inferno, sta nei regolamenti parlamentari. Giacché se non possiamo revocarli, se non possiamo nemmeno vincolarli con un mandato imperativo, possiamo pur sempre castigarli. Come? In primo luogo, impedendo ai fuoriusciti di costituire un gruppo autonomo in corso di legislatura: tutti nel gruppo misto, dietro la lavagna. In secondo luogo, imbavagliando chi abbandona il partito col quale si è candidato alle elezioni: transfughi e trasformisti rimangano pure in Parlamento, votino pure le proposte altrui, però in silenzio, così almeno ci verrà risparmiato il turpiloquio. In terzo luogo, dimezzando a queste truppe cammellate lo stipendio. Loro ci raccontano d'aver cambiato schieramento per l'idea, anzi per l'ideale; non certo per quattrini. Vediamo un po' se è vero".
Riuscirà mai nessuno in Parlamento a proporre e attuare queste tre semplici regole all'interno dei gruppi parlamentari?
Poche le probabilità di riuscita.
Canzone del giorno: I'll Never Leave You (1971) - Harry Nilsson
Clicca e ascolta: I'll Never....Al deputato transfuga dimezziamo lo stipendio
Michele Ainis, L'Espresso del 23/10/2015
Su queste colonne ne abbiamo parlato e straparlato (l'ultima volta
il 26 giugno). Il problema è che noi diciamo, loro fanno. Anzi disfano:
alleanze, partiti, gruppi parlamentari, ma soprattutto impegni e giuramenti
sottoscritti con il popolo votante. Nel primo biennio della legislatura i cambi
di casacca sono già 300, come gli eroi riuniti attorno a Carlo Pisacane. Loro
erano giovani e forti, e sono morti. Questi appaiono vecchiotti e deboli di
spirito, ma sono vivi e vispi. Le loro truppe intruppano più di dieci fanti al
mese, marciando a passo d'oca verso un solo approdo: la maggioranza di
governo. Che li accoglie a braccia spalancate, soprattutto al Senato, dove i
numeri corrono sul filo del rasoio. E difatti i senatori che hanno abbandonato
il proprio gruppo fin qui sono 112: oltre uno su tre.
Detto fuori dai denti: è un'indecenza. Sicché la domanda è la stessa che si pose Lenin, nel suo celebre libro del 1902: Che fare? Lì per lì, verrebbe voglia di mandare al diavolo il divieto di mandato imperativo, che la Costituzione stabilisce nell'articolo 67. Dopotutto, la riforma Boschi corregge 41 articoli della nostra vecchia Carta; uno in più, non farebbe troppa differenza. E senza quella garanzia della libertà parlamentare, forse noi elettori potremmo guadagnare un po' di libertà. Sarebbe tuttavia un errore, perché il mandato vincolante nega tutta l'esperienza liberale. Non a caso fu brevettato da un signore che si chiamava Robespierre, nel suo discorso «Sul governo rappresentativo» (10 maggio 1793); e le teste volarono per aria.
Sennonché in democrazia le teste si contano, invece di tagliarle. E le voci s'ascoltano, nella ricerca di un'intesa. Il Parlamento costituisce per l'appunto il luogo nel quale ci si parla, ci si confronta tra maggioranza e opposizione; l'essenza della democrazia parlamentare è il compromesso, come diceva Kelsen. Ma nessun compromesso sarebbe mai possibile se ciascun eletto fosse rigidamente vincolato al mandato ricevuto dai propri elettori. Così come risulterebbe impraticabile l'elezione del presidente della Repubblica, nel caso in cui tutti i partiti tenessero le loro “quirinarie”, emulando i 5 Stelle. Perché allora o il Rodotà di turno arriva primo nelle consultazioni online di tre partiti, o il vecchio presidente rimane in carica vita natural durante.
Però una via d'uscita c'è: il recall. Ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso una sorta di referendum personale sulla loro permanenza nella carica elettiva. Un istituto che esiste in mezzo mondo, e che Woodrow Wilson - 28º presidente degli Stati Uniti - definì a suo tempo «la salvaguardia della politica». Il guaio è che il recall funziona per gli organi monocratici, non per quelli collegiali. Potrebbe anche applicarsi ai singoli parlamentari, se ciascuno di loro fosse eletto in un collegio uninominale. Ma quando ogni collegio ne esprime, per esempio, sette (è il caso dell'Italicum, e a maggior ragione del Porcellum che ha generato questo Parlamento), la maggioranza avrebbe gioco facile ad accaparrarsi tutti i posti. I primi quattro attraverso le elezioni; gli altri tre con altrettanti recall sui parlamentari della minoranza.
E dunque, siamo con le spalle al muro? Dovremo rassegnarci a chiedere anche noi un passaggio sul taxi di Verdini? Non è detto. Il nostro paradiso, e al contempo il loro inferno, sta nei regolamenti parlamentari. Giacché se non possiamo revocarli, se non possiamo nemmeno vincolarli con un mandato imperativo, possiamo pur sempre castigarli. Come? In primo luogo, impedendo ai fuoriusciti di costituire un gruppo autonomo in corso di legislatura: tutti nel gruppo misto, dietro la lavagna. In secondo luogo, imbavagliando chi abbandona il partito col quale si è candidato alle elezioni: transfughi e trasformisti rimangano pure in Parlamento, votino pure le proposte altrui, però in silenzio, così almeno ci verrà risparmiato il turpiloquio. In terzo luogo, dimezzando a queste truppe cammellate lo stipendio. Loro ci raccontano d'aver cambiato schieramento per l'idea, anzi per l'ideale; non certo per quattrini. Vediamo un po' se è vero.
Detto fuori dai denti: è un'indecenza. Sicché la domanda è la stessa che si pose Lenin, nel suo celebre libro del 1902: Che fare? Lì per lì, verrebbe voglia di mandare al diavolo il divieto di mandato imperativo, che la Costituzione stabilisce nell'articolo 67. Dopotutto, la riforma Boschi corregge 41 articoli della nostra vecchia Carta; uno in più, non farebbe troppa differenza. E senza quella garanzia della libertà parlamentare, forse noi elettori potremmo guadagnare un po' di libertà. Sarebbe tuttavia un errore, perché il mandato vincolante nega tutta l'esperienza liberale. Non a caso fu brevettato da un signore che si chiamava Robespierre, nel suo discorso «Sul governo rappresentativo» (10 maggio 1793); e le teste volarono per aria.
Sennonché in democrazia le teste si contano, invece di tagliarle. E le voci s'ascoltano, nella ricerca di un'intesa. Il Parlamento costituisce per l'appunto il luogo nel quale ci si parla, ci si confronta tra maggioranza e opposizione; l'essenza della democrazia parlamentare è il compromesso, come diceva Kelsen. Ma nessun compromesso sarebbe mai possibile se ciascun eletto fosse rigidamente vincolato al mandato ricevuto dai propri elettori. Così come risulterebbe impraticabile l'elezione del presidente della Repubblica, nel caso in cui tutti i partiti tenessero le loro “quirinarie”, emulando i 5 Stelle. Perché allora o il Rodotà di turno arriva primo nelle consultazioni online di tre partiti, o il vecchio presidente rimane in carica vita natural durante.
Però una via d'uscita c'è: il recall. Ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso una sorta di referendum personale sulla loro permanenza nella carica elettiva. Un istituto che esiste in mezzo mondo, e che Woodrow Wilson - 28º presidente degli Stati Uniti - definì a suo tempo «la salvaguardia della politica». Il guaio è che il recall funziona per gli organi monocratici, non per quelli collegiali. Potrebbe anche applicarsi ai singoli parlamentari, se ciascuno di loro fosse eletto in un collegio uninominale. Ma quando ogni collegio ne esprime, per esempio, sette (è il caso dell'Italicum, e a maggior ragione del Porcellum che ha generato questo Parlamento), la maggioranza avrebbe gioco facile ad accaparrarsi tutti i posti. I primi quattro attraverso le elezioni; gli altri tre con altrettanti recall sui parlamentari della minoranza.
E dunque, siamo con le spalle al muro? Dovremo rassegnarci a chiedere anche noi un passaggio sul taxi di Verdini? Non è detto. Il nostro paradiso, e al contempo il loro inferno, sta nei regolamenti parlamentari. Giacché se non possiamo revocarli, se non possiamo nemmeno vincolarli con un mandato imperativo, possiamo pur sempre castigarli. Come? In primo luogo, impedendo ai fuoriusciti di costituire un gruppo autonomo in corso di legislatura: tutti nel gruppo misto, dietro la lavagna. In secondo luogo, imbavagliando chi abbandona il partito col quale si è candidato alle elezioni: transfughi e trasformisti rimangano pure in Parlamento, votino pure le proposte altrui, però in silenzio, così almeno ci verrà risparmiato il turpiloquio. In terzo luogo, dimezzando a queste truppe cammellate lo stipendio. Loro ci raccontano d'aver cambiato schieramento per l'idea, anzi per l'ideale; non certo per quattrini. Vediamo un po' se è vero.