![]() |
Nico Pillinini, da google.it |
Scriptum
nuovigiorni.blogspot.it: scritti, spunti,commenti, chiacchiere e tabacchiere di legno
nuovigiorni
"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
mercoledì 2 luglio 2025
Para Pacem
martedì 1 luglio 2025
Playlist Giugno 2025
2.
The
Smiths, What She Said – (Meat
Is Murder – 1985) –
Idiozie illimitate
3.
Randy
Newman, Guilty – (Good
Old Boys – 1974) – Cortocircuito
esistenziale
4. Uriah Heep, Return
To Fantasy – (Return To Fantasy – 1975) – Bloccati
5.
Verdena, E’ solo lunedì – (Wow
– 2011) – Ne
parliamo lunedì
6.
Alicia
Keys, How It Feels To Fly – (The
Element Of Freedom – 2009) – Insularità
di animo
7.
Mastodon, Black Tongue – (The
Hunter – 2011) – Azioni
criminali
8.
Samuele
Bersani, Giudizi universali – (Samule
Bersani – 1997) – Piano
inclinato
9.
Giovanni
Sollima e Carlotta Maestrini, Aria – (Untitled
– 2022) –
Ostilità
10.
Kenny
Rogers, The Gambler – (The
Gambler – 1978) – La
scelta dell’azzardo
11.
Counting
Crows, Catapult – (Recovering
The Satellites – 1996) –
Coreografia della Guerra
12.
John
Mayall, Travelling – (Back
To The Roots – 1971) – Viaggio
per viaggiare
13.
Gracie
Abrams, Let It Happen – (The
Secret Of Us – 2024) – Il
peso del caso
domenica 29 giugno 2025
Il peso del caso
Professor Sunstein, partiamo dai Beatles: perché le loro canzoni non bastano a spiegarne la fama planetaria?
«Al di là della
loro creatività indiscussa, i Beatles ebbero diversi colpi
di fortuna. Ad esempio accettare come loro manager il vulcanico
Brian Epstein, proprietario di un negozio di dischi senza esperienza
nell’industria musicale ma cocciuto e geniale, che si offrì a loro
dopo averli sentiti in un famoso club a Liverpool; e poi l’incontro
fatidico di Epstein con George Martin, che sarà il loro produttore e
pubblicherà – quando nessun’altra casa discografica tampinata da
Epstein mostrava interesse per la band – il primo singolo Love me do.
All’inizio nessuno prendeva sul serio i Beatles, anche per il buffo
nome del gruppo. Epstein mise in atto tutta una serie di
strategie promozionali più o meno ortodosse: c’è chi dice che acquistò
lui stesso 10 mila copie del disco per farlo entrare in classifica.
Riuscì a farli esibire in una trasmissione che andò in onda durante
quella che in Inghilterra fu la nevicata più intensa del secolo,
con quasi tutta la popolazione chiusa in casa davanti alla tv…».
Insomma tendiamo a sottovalutare il peso
del caso?
«Un esempio
eclatante è quello di Muhammad Alì: da ragazzo gli rubarono la
bicicletta, e un poliziotto a cui parlò del furto – dicendogli di
voler dare una lezioncina al ladro – gli rispose: «Se proprio vuoi
farlo, prima prendi qualche lezione di boxe». Il resto è Storia. Solo
pochi, tra i grandi, si rendono conto del peso delle circostanze. Il
Presidente Obama un giorno mi disse: “I Ceo pensano che io li
odi. Non è così: è solo che so che, per quanto straordinari, sono
stati fortunati. È anche il mio caso: spero di fare un buon lavoro,
ma ho avuto un sacco di fortuna”. Era conscio di essersi candidato in
un momento in cui l’America voleva un presidente nero».
Da un’intervista di Giuliano Aluffi a Cass R. Sunstein, autore del saggio “Come diventare famosi” (il Venerdì di Repubblica – 20/6/2025)
venerdì 27 giugno 2025
Viaggio per viaggiare
“Io viaggio non per andare da qualche parte, ma per andare. Viaggio per viaggiare. La gran cosa è muoversi, sentire più acutamente il prurito della nostra vita, scendere da questo letto di piume della civiltà e sentirsi sotto i piedi il granito del globo”.
Robert Louis Stevenson (1850 – 1894)
mercoledì 25 giugno 2025
Coreografia della guerra
Anche tra gli avversari più feroci può esserci una coreografia della guerra. Non si tratta ovviamente di una questione puramente estetica, ma di regole d’ingaggio, del segnale politico che si invia all’altro. È quello che è successo quando l’Iran ha fatto sapere in anticipo al Qatar, e quindi agli Stati Uniti, che la loro gigantesca base di Al Udeid, vicino Doha, sarebbe stata presa di mira da lanci di missili. Lo scopo non era distruggere la base o uccidere chi c’era: qualche missile su una delle strutture protette meglio non basterebbe. L’obiettivo era proprio inviare un messaggio politico, quello che Teheran non cercava l’escalation con Washington. Il regime iraniano non poteva lasciare senza risposta il bombardamento senza precedenti dei suoi siti nucleari compiuto dagli aerei statunitensi, una vera e propria umiliazione, ma sa anche che non è in grado di affrontare una guerra aperta con gli Stati Uniti. Accetta di fatto la sua sconfitta, ma assicura la sua sopravvivenza. Trump ha incassato volentieri il messaggio e, in un ribaltamento di quelli che solo lui sa fare, ne ha subito tratto le conseguenze, decretando la fine di questa guerra di dodici giorni. Cogliendo tutti di sorpresa: tanto i suoi collaboratori quanto Israele, che voleva continuare. Gli conviene politicamente: Trump si era preoccupato di presentare il bombardamento del 22 giugno come un atto unico, non l’inizio di una guerra. Una parte dei suoi elettori è già destabilizzata da questa operazione militare, e il presidente rischiava di perderla entrando in un’escalation contraria ai suoi impegni pacificatori. Ci sarebbe stato un altro scenario se ci fossero state vittime statunitensi nei lanci di missili iraniani. C’è un precedente: nel 2019, durante il primo mandato di Trump, l’Iran aveva abbattuto un drone statunitense da 130 milioni di dollari. Una rappresaglia contro le basi iraniane era stata prevista, ma Trump l’aveva fermata. Spiegando che sul drone non c’erano piloti, dunque non c’erano state vittime, mentre le ritorsioni avrebbero causato decine di morti. La stessa logica gli permette oggi di uscire rafforzato da questa vicenda. Trump potrà vantarsi all’infinito di aver usato la forza più grande possibile contro l’Iran, contrariamente ai suoi predecessori, e di essersi mostrato giusto e magnanimo al termine dello scontro. Il vantaggio politico è evidente. Nel frattempo toglie il terreno sotto i piedi a Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano non era della stessa idea. Ieri ha intensificato i bombardamenti e ha perfino ampliato i suoi obiettivi, puntando a quelli che persegue dall’inizio: la distruzione del nucleare o il cambiamento di regime? Non c’è dubbio che Israele preferirebbe andare fino in fondo, anche se dovrà accontentarsi di aver fatto arretrare, ma probabilmente non totalmente distrutto, il programma nucleare iraniano. Significa chiaramente che ormai è Trump a decidere della pace e della guerra nel mondo. Non è certo una buona notizia per l’ordine internazionale, anche se oggi non ci si può che rallegrare se questo conflitto si ferma.
Pierre Haski, emittente radiofonica francese France Inter (24/06/2025) - da Internazionale.it
lunedì 23 giugno 2025
La scelta dell'azzardo
Lo strappo di Donald Trump con l’attacco all’Iran spiazza la sua America, crea sconcerto nel mondo intero ma anche nella galassia MAGA (Make America Great Again). Non era del tutto inatteso, certo, alla luce dell’ultima escalation verbale, però resta un gesto dirompente. Questo era un presidente percepito da molti dei suoi elettori come un isolazionista – in senso positivo: un leader che avrebbe evitato di impantanare il suo paese in conflitti internazionali, mettendo a rischio le vite dei propri soldati, sprecando risorse economiche in avventure da gendarme globale. Invece ha osato fare ciò che nessuno dei suoi predecessori aveva fatto: un bombardamento diretto e su vasta scala contro diversi obiettivi sul suolo iraniano. Ora la Casa Bianca e il Pentagono si affrettano a circoscrivere la portata dell’operazione: non si tratta di un’entrata in guerra, solo la distruzione mirata e precisa di siti nucleari. Non è detto che l’avversario bersagliato la pensi così, e accetti di comportarsi di conseguenza. Inoltre una prima valutazione dei vertici militari Usa parla di danni ai siti nucleari ma non dà per certa la loro distruzione totale. In cerca di precedenti storici americani, limitatamente all’Iran se ne possono ricordare un paio. 45 anni fa, nell’aprile 1980 il presidente Jimmy Carter ordinò un raid militare sul territorio iraniano per liberare 52 americani tenuti in ostaggio nell’ambasciata Usa di Teheran: quella missione finì in un disastro umiliante, diede un colpo fatale alla credibilità di Carter che perse le elezioni; la liberazione degli ostaggi dopo 444 giorni di prigionia avvenne dopo la vittoria del repubblicano Ronald Reagan. L’opinione pubblica americana rimase traumatizzata a lungo dalla memoria di quel disastroso raid – con le immagini di una tragica collisione tra elicotteri Usa nel deserto – e ogni intervento militare in Iran sembrò «off limits». […] In quanto a vere e proprie guerre, in Medio Oriente i precedenti Usa sono quelli di George Bush padre in Iraq nel 1990-91, cioè la prima guerra del Golfo, operazione Desert Storm. L’invasione dell’Afghanistan (7 ottobre 2001 – 30 agosto 2021). Quella dell’Iraq all’inizio del 2003. Ambedue sotto George Bush figlio. Infine la guerra di Barack Obama in Libia che depose Gheddafi nel 2011. La prima guerra del Golfo però ebbe una legittimazione internazionale notevole, fu condotta da una coalizione che includeva tante nazioni arabe, anche perché reagiva all’aggressione e all’annessione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Il secondo intervento militare in Iraq e a maggior ragione l’Afghanistan ebbero inizialmente la legittimazione dell’11 settembre 2001, anche se le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein si rivelarono una montatura americana. In Libia, Obama commise un errore madornale dalle conseguenze catastrofiche, però riuscì a farsi avallare l’intervento dall’Onu. Questo breve riepilogo serve a ricordare una cosa: Trump ha sempre condannato le guerre mediorientali dei suoi predecessori. La fortuna politica di questo presidente, la sua scalata al partito repubblicano nel 2015, si accompagnò ad un assalto ideologico contro il pensiero neoconservatore che aveva ispirato la politica «imperiale» in Medio Oriente, l’illusione di rovesciare regimi, esportare democrazia, imporre l’egemonia Usa in quella parte del mondo. Trump si costruì la sua reputazione di isolazionista proprio denunciando la velleitarietà di chi aveva preteso di svolgere il ruolo di gendarme mondiale. […] Che cosa lo ha convinto a fare questo strappo? Il ruolo di Benjamin Netanyahu deve essere stato decisivo. Avendo eliminato o decapitato o fortemente indebolito gli alleati dell’Iran – Hamas, Hezbollah, Assad – le forze armate israeliane hanno ridotto i rischi che un colpo all’Iran si traduca in una immediata deflagrazione di conflitti in tutto il Medio Oriente. Trump ha visto balenare un’opportunità: risolvere la minaccia iraniana – una spina nel fianco che ha perseguitato tutti i presidenti americani da Carter in poi, 46 anni senza che nessuno trovasse una soluzione – incassando un successo storico senza correre rischi molto elevati. Nel suo intervento televisivo di sabato sera Trump ha sottolineato la micidiale efficacia delle armi americane: e questo è un messaggio al mondo intero, comprese Russia e Cina. Per ora lui sembra convinto di poter «vendere» agli americani il bombardamento dei siti nucleari come un blitz una tantum, un colpo formidabile che blocca l’Iran, rende più sicuri gli alleati dell’America, ripristina la massima credibilità del deterrente Usa urbi et orbi, ma gli lascia le mani libere per il futuro e non lo costringe a entrare nella logica dell’escalation. È una scommessa azzardata, come molte delle mosse di questo presidente.
Federico Rampini, Corriere della Sera (22/6/2025)
sabato 21 giugno 2025
Ostilità
MELII: E come può derivare dell’utile a noi dall’essere vostri schiavi, come a voi dal comandarci?
ATENIESI: Perché
a voi toccherebbe obbedire invece di subire la sorte più atroce, mentre noi se
non vi distruggessimo ci guadagneremmo.
MELII: E che
noi restando in pace fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna
delle due parti, non l’accettereste?
ATENIESI:
No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia,
manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza, mentre l’odio lo è della
nostra potenza.
Tucidide (460 a.C. – 396 a.C.), La guerra del Peloponneso – da Dialogo degli ateniesi e dei melii sulla giustizia in guerra.