nuovigiorni
"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
lunedì 30 maggio 2022
sabato 28 maggio 2022
Antiamericanismo
Biden è rimbambito. E’ un guerrafondaio. L’America prepara e minaccia guerre. Perché tanto non ne ha mai subita una sul proprio territorio. Nelle guerre che l’America ha fatto in giro per il mondo, di atrocità ne ha combinate più di quelle che ora denunciano in Ucraina. Se la prendono con la Russia, la Cina e l’Europa per far pagare ad altri i guai di casa propria. Pensano ai loro profitti, del resto del mondo non gli importa nulla. La guerra in Ucraina vede un ritorno dell’antiamericanismo. In tutte le salse. Sembra in apparenza nuovo. In realtà è vecchio come il cucco. Sa lontano un miglio di déjà vu. Quando, oltre trent’anni fa, lasciai Pechino per andare a fare il corrispondente a New York, ero – lo confesso – un pochino prevenuto, non verso l’America, ma nei riguardi dell’allora presidente Ronald Reagan. Per anni avevo letto, anche sul mio giornale di allora, l’Unità, che Reagan era vecchio, un po’ fuori di testa, un attore suonato, uno che rischiava di portare il mondo alla guerra, e così via. Il mio predecessore nell’incarico di corrispondente del giornale del Pci dagli Stati Uniti, Aniello Coppola, mi spiegò invece che molti europei non avevano capito proprio nulla. “Reagan è il presidente più popolare, più simpatico che l’America abbia avuto da Kennedy in poi”, diceva. Coppola era un esponente storico della sinistra “ingraiana”. Ma era anche, e soprattutto, un grande giornalista. Pensava con la sua testa, non coi preconcetti. Aveva ragione lui. Reagan seppe tenere a bada i falchi nel suo governo (e ce n’erano!). Fece all’Unione sovietica di Gorbaciov proposte che questa non poteva rifiutare. [...] Antiamericanismi, al plurale, bisognerebbe dire. Ce n’è, ce ne sono stati, di molti tipi. C’è stato un antiamericanismo russo, e uno cinese. Che però si sono alternati a momenti di apertura, anzi addirittura di cooperazione. A volte di fronte all’affacciarsi di nemici volta a volta considerati più pericolosi (l’imperialismo giapponese, poi quello dei “nuovi zar” per Mao, Hitler per Stalin), a volte perché conveniva di gran lunga competere pacificamente. C’è stato anche un antiamericanismo europeo da sinistra. La mia generazione protestava contro la guerra americana in Vietnam, e neanche in nome del pacifismo: “Il Vietcong vince perché spara”, si scandiva nei cortei. Ma c’è stato ancora di più, molto più radicato in profondità, un antiamericanismo di destra. Gratta gratta è ancora il filone che va per la maggiore. Si sentono e si riscoprono argomenti già sentiti e già usati. Non solo ieri o l’altroieri. E non da chi ci si si aspetterebbe...
Siegmund Ginzberg, Il Foglio 28/5/2022
giovedì 26 maggio 2022
Sempre la verità
Elias Canetti (1905 – 1994) - La provincia dell'uomo
lunedì 23 maggio 2022
Insegnamenti
Oggi, 23 maggio 1992, tutti le edizioni speciali dei tg parlano dell'assassinio di Falcone e della sua lotta contro la mafia. Anche oggi, 23 maggio 2022, trent'anni dopo, parliamo di questo. Parliamo di Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti Dicillo, Schifani e Montinaro. E parliamo di mafia. È questa la drammatica sponda che ci viene offerta: questo sciagurato ricordo di sangue. Lo facciamo noi e lo fanno molti altri. Ed è un bene, perché altrimenti, se non si trattasse di commemorare una fra le più alte personalità che questo Paese abbia mai espresso in fatto d'impegno contro la criminalità organizzata — se non si trattasse di affogare ancora una volta il nostro ricordo nel sangue, di rievocare la sciagura perché serva da monito e da sprone — allora non lo farebbe nessuno. Certamente non lo farebbe la politica. II tema della mafia sembra scomparso dall'agenda di governo, dai dibattiti dell'opposizione. Sembra che la mafia, le mafie, siano scomparse. Ma è esattamente il contrario. E tristemente ironico che il primo a mostrarci una mafia finanziaria, prima ancora che sanguinaria, fu proprio Falcone. Fu lui il primo a parlare di una mafia che ancora più delle pistole fa parlare i consulenti finanziari. In larga parte dematerializzata, ma non per questo meno forte. Tutt'altro. Oggi mafia non vuol dire soltanto estorsioni, minacce, omicidi, droga. Oggi mafia vuol dire aziende svuotate e ripopolate per riciclare denaro, imprenditori sconfitti da una concorrenza invincibile perché basata sui profitti illeciti, grandi opere realizzate al risparmio sulla pelle dei cittadini. Se ieri, parlando di mafia, potevamo pensare a un coltello affondato dentro la carne della società, oggi dobbiamo pensare a un virus, a una pestilenza silenziosa che sfugge all'occhio ma ammorba la società, abbassando drasticamente la qualità della vita di ognuno. Questo mi ha insegnato Falcone, questo ha insegnato a tutti noi. Anche ai nostri politici. E allora perché gran parte della politica europea — non tutta, per fortuna — ignora il problema? Forse l'ha dimenticato? Forse crede davvero, ingenuamente, che la mafia sia stata debellata o che sia stata messa all'angolo? (…) Quando la Cassazione ha emesso la propria sentenza sul fallito attentato dell'Addaura, ha detto che «Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio (...) diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro personale del valoroso magistrato». Scrivono i giudici: «Non vi è, invero, alcun dubbio che Giovanni Falcone — certamente il più capace magistrato italiano — fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazione ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all'interno delle stesse istituzioni), tendenti ad impedirgli che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole sia perche il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo e il più preparato e che offriva le maggiori garanzie — anche di assoluta indipendenza e di coraggio — nel contrastare, con efficienza e in profondità, l'associazione criminale». Anche la sentenza di primo grado diceva chiaramente: «Sono emersi con drammatica evidenza i perversi giochi di potere realizzati contro le legittime aspettative di Giovanni Falcone». Infame linciaggio, spregevoli accuse, torbidi giochi di potere. Potevano, coloro che firmavano articoli contro Falcone, non sapere che lo stavano esponendo? Le drammaticamente celebri lettere firmate «il Corvo», che provenivano dall'interno del tribunale e che, fingendo di svelare da dietro le quinte i piani di Falcone lo infangavano, avevano la volontà di agevolare l'attentato di Cosa Nostra? Probabilmente no, volevano solo annullarne la reputazione per sabotarne la carriera, assassinarlo civilmente — quello che spesso fa il giornalismo-fango — ma lasciarlo in vita fisicamente. Però, proprio come rileva la Cassazione, e indubbio che le «vili e spregevoli accuse» o l'«infame linciaggio» — o, semplicemente, la negazione di un riconoscimento ufficiale — abbiano mandato alla cosca un messaggio molto chiaro: «Quest'uomo per noi è poco importante». E possibile che all'epoca i responsabili di questi attacchi non ne fossero consapevoli? Be'... Teoricamente è possibile anche se difficile da credere. E possibile che ancora oggi, chi veste quegli stessi panni — fra politici, giornalisti, colleghi di opposte correnti — ignori le conseguenze delle proprie azioni? No. Oggi non è più possibile. Come non è scusabile che le mafie sembrino una questione ormai risolta. Che sembrino svanite. A svanire invece è stato solo l'argomento mafie dal dibattito politico, dal dibattito pubblico.
Roberto Saviano, Corriere della Sera (23/05/2022)
venerdì 20 maggio 2022
Indebolimento
Nel decennio passato c'è stata una proliferazione di eventi che hanno cambiato il mondo. Alcuni sono stati talmente eclatanti che era impossibile ignorarli, ma ce ne sono stati anche altri più graduali, che sono passati quasi inosservati. Il più importante fra questi è la crisi mondiale della democrazia. Le democrazie si sono indebolite in tutti i continenti, mentre le dittature sono in grande spolvero e ospitano il 70 per cento della popolazione mondiale, vale a dire 5,4 miliardi di persone. Secondo studi dell'Istituto V-Dem dell'Università di Göteborg, un decennio fa la percentuale di persone che vivevano sotto dittature era attestata al 49 per cento. Era dal 1978 che il numero di Paesi in via di democratizzazione non era così basso. Sono due i motivi che spiegano perché questo arretramento della democrazia non ha provocato grossi allarmi e nemmeno reazioni significative. Il primo è che stavano succedendo molte altre cose urgenti e concrete che rendevano difficile, per i difensori della democrazia, attirare l'attenzione dei leader, dei mezzi di informazione e dell'opinione pubblica sul problema; la pandemia o la crisi finanziaria mondiale sono solo due esempi di una lunga lista di eventi che hanno sottratto spazio alle crisi meno immediate. La seconda ragione è che nella maggior parte dei casi gli attacchi alla democrazia sono stati deliberatamente dissimulati, difficili da percepire e ancor meno in grado di mobilitare le persone. [...] ...la Cina, che oggi è tra le società più disuguali al mondo. Eppure l'attenzione mondiale per l'economia cinese non si è focalizzata sulla crescente disuguaglianza, bensì sulla rapida crescita economica: fra il 2010 e il 2020 il colosso asiatico ha più che duplicato le dimensioni della sua economia e oggi, a seconda del metro di calcolo adottato, è la prima o la seconda economia mondiale. In questo stesso periodo, il regime cinese è diventato ancora più autoritario: nel 2018 il presidente Xi Jinping ha provveduto a eliminare la norma costituzionale che dal 1982 limitava la presidenza a due periodi di cinque anni; grazie a questa riforma costituzionale, ora Xi può essere presidente a tempo illimitato. Il decennio passato è stato anche quello della Brexit, l'inaspettata e traumatica uscita del Regno Unito dall'Unione Europea. È stato pure il periodo in cui si è assistito a un esplosivo aumento dell'influenza economica, politica e sociale di piattaforme come Facebook, YouTube, Instagram, Twitter o TikTok. Ed è stato anche il periodo delle guerre di Putin: i militari russi hanno combattuto in Georgia, Crimea, Abcasia, Ossezia del Sud, Siria e Ucraina. Sempre in questi dieci anni abbiamo visto l'ascesa di Donald Trump, che ha conquistato il Partito repubblicano e la presidenza degli Stati Uniti. Molti di questi eventi sono stati modellati e favoriti dal rapido incremento del numero di persone che usano telefonini intelligenti, gli onnipresenti smartphone: oggi più di 6,5 miliardi di persone (1'84 per cento della popolazione mondiale) possiedono uno di questi dispositivi. Mentre tutto questo (e molto altro ancora) distraeva la nostra attenzione, un gruppo di leader autoritari si è appropriato di molte delle democrazie del pianeta. Le statistiche, i rapporti e le evidenze del deterioramento della democrazia nel mondo sono sorprendenti e preoccupanti. Ma più sorprendente ancora è la mancanza di risposte e l'inazione di fronte agli assalti delle forze antidemocratiche. La ragione è che molti degli attacchi contro le democrazie in questo momento avvengono in modo talmente dissimulato da essere, di fatto, quasi invisibili. Se un problema non viene individuato, è impossibile che venga risolto, e in questo momento le democrazie del mondo stanno affrontando un problema pericoloso e non sufficientemente riconosciuto. Dobbiamo identificarlo, pubblicizzarlo e affrontarlo.
Moisés Naìm, la Repubblica (19/5/2022) - Traduzione di Fabio Galimberti
mercoledì 18 maggio 2022
Povera patria
Si può sperare
Che il mondo torni a quote più normali
Che possa contemplare il cielo e i fiori
Che non si parli più di dittature
Se avremo ancora un po' da vivere
La primavera intanto tarda ad arrivare
Franco Battiato, Povera patria (1991)
lunedì 16 maggio 2022
Nuovo ordine
Allarghiamo lo sguardo. L'aggressione russa dell'Ucraina va oltre la volontà criminale di Vladimir Putin di ricostruire l'immaginaria nazione-impero russa. Quell'aggressione si inserisce nella messa in discussione delle democrazie liberali e nel rivolgimento dell'ordine unipolare creatosi con la fine della Guerra Fredda (1991). Dalla Siria all'Ucraina, da Hong Kong al Mali, forze e leader autoritari sono in azione per promuovere nuove gerarchie regionali e globali. Il vecchio ordine si è esaurito, il nuovo ordine è ancora da definire. Vediamo meglio. Sul piano internazionale, i Paesi che garantiscono lo stato di diritto, la competizione politica e le libertà fondamentali, tra cui quelle economiche, sono una minoranza. Secondo l’ultimo rapporto del V-Dem Institute, il loro numero è diminuito da 42 (2012) a 34, mentre i Paesi retti da regimi autoritari sono in crescita ovunque. Il 70 per cento della popolazione mondiale (5,4 miliardi persone) vive nei secondi, solamente il 13 per cento nei primi. È vero che le democrazie liberali (in specifico l’America e l’Europa) producono più del 50 per cento del Pil globale, mentre la Cina e la Russia ne producono (insieme) meno del 20 per cento. Tuttavia, ciò non è bastato per attrarre il global south autoritario verso l’apertura economica e politica. Per di più, l’autoritarismo è divenuto una pratica diffusa anche nei Paesi formalmente democratici (come l’India, il Brasile, l’Ungheria, la stessa America), probabilmente come risposta (per Yascha Mounk) alla “paura della diversità”. In questo contesto, non è interesse dei Paesi a democrazia liberale dare vita a una nuova guerra fredda con il mondo dell’autoritarismo. Certamente, essi dovrebbero cooperare più strettamente su temi come la sicurezza e lo sviluppo, senza dare vita, però, ad una fortezza chiusa in sé stessa. Ad esempio, ha scritto Michael Hirsh, per raggiungere l’obiettivo di sanzionare economicamente la Russia, ci si può “alleare” con Paesi cui interessa poco la difesa della democrazia, ma molto la difesa del principio dell'intoccabilità dei confini nazionali. Se i leader autoritari usano l’antioccidentalismo (e l’antiamericanismo) per nascondere le loro differenze, i leader democratici dovrebbero accentuare queste ultime, combinando flessibilità e determinazione. Possono farlo? Sì, a condizione di neutralizzare le disfunzionalità dei loro regimi politici. La disfunzionalità americana si chiama polarizzazione politica e sociale del Paese. Basti pensare che l’aggressione russa dell’Ucraina non ha prodotto alcuna ricomposizione dell’elettorato intorno al presidente Biden (il cosiddetto effetto rally around the flag). Nonostante l’indubbia efficacia del sostegno americano al governo ucraino, la popolarità del presidente Biden non è cresciuta. […]Il problema non è la forza dell'America, ma la sua debolezza. Lo stesso vale per l'Europa integrata, forte sul piano economico ma debole su quello politico e militare. Per rimediare a tale debolezza, occorrerebbe rivedere l’impianto istituzionale che regge il suo sistema decisionale. Cioè riformare i Trattati. Ma qui le resistenze sono formidabili, sia tra i grandi che tra i piccoli Paesi. Per quanto riguarda i grandi, si pensi alla Germania. Se Draghi e Macron hanno preso una posizione chiara a favore di una sovranità europea (a cominciare dalla difesa), non si può dire lo stesso di Scholz. Quest’ultimo fa fatica a liberarsi dalla visione e dagli interessi che hanno trasformato il suo Paese in una potenza opportunisticamente mercantilistica. […]Insomma, se si allarga lo sguardo, si vede che a essere circondate sono le democrazie liberali e non già i regimi autoritari. Le democrazie liberali debbono però evitare la sindrome dell’assedio, usando sia gli strumenti di hard power per contrastare l’aggressività dei regimi autoritari e quelli di soft power per dividerli. Il nuovo ordine internazionale dipenderà da ciò che l’America e l’Europa faranno.
Sergio Fabbrini, Il Sole 24 Ore (15/5/2022)
sabato 14 maggio 2022
Sistemazione
La calma o l'agitazione del nostro umore non dipende tanto dalle cose più importanti che ci accadono nella vita, quanto da una sistemazione comoda o sgradevole delle piccole cose che capitano tutti i giorni.
mercoledì 11 maggio 2022
Armata rossa
È stata una parata senza colpi di scena. Anche il discorso di Vladimir Putin si è limitato all’opera, ormai usuale, di riscrittura della storia, a uso e consumo della propaganda interna. Non ci sono state dichiarazioni di guerra totale e nemmeno un’impossibile mobilitazione generale. Nessun riferimento allo spauracchio della guerra nucleare, né tantomeno proclamazioni di vittoria. Dopo oltre due mesi di guerra, l’esercito russo preferisce volare basso. Assomiglia a una tigre di carta. Dove sono le capacità fantasmagoriche vantate dal Cremlino da almeno un decennio? Che farsene di armi ipertecnologiche, come gli avveniristici carri Armata, impettiti anche ieri sulla Piazza Rossa, ma non ancora pronti? Ai reparti al fronte servirebbero innanzitutto radio criptate e pneumatici moderni, l’abc di un esercito. L’“Armata rossa” di oggi è sempre più fragile. Pare una somma di debolezze. È senza fanterie, un dato che rispecchia la povertà demografica del Paese. Il comando in battaglia è ingessato. I generali sono costretti a esporsi in prima linea per impartire direttive lineari; spesso ci lasciano le penne. Di fronte a un nemico abilissimo nella guerriglia, tutto mobilità e azioni di disturbo, servirebbe libertà di iniziativa ai più bassi livelli. Ma non ve n’è traccia. Neanche nella battaglia del Donbass. L’obiettivo, ridimensionato rispetto alle aspettative iniziali, avrebbe dovuto suggellare la riscossa immediata dell’esercito russo. E invece qualcosa non va. Per circondare i 40mila ucraini che presidiano il teatro, i russi avrebbero bisogno di 150mila uomini. Arrivano a mala pena a 100mila. […]Forse i russi alla fine vinceranno la battaglia del Donbass. Per ora gli ucraini li contengono quasi ovunque. Hanno il vantaggio difensivo di posizioni organizzate. Hanno poche riserve, ma è difficile sfondare e conseguire risultati strategici dirompenti, tanto più che Kiev ha alle spalle gli arsenali illimitati dell’Occidente. Mosca avrà pure le migliori armi nucleari del mondo, ma le sue truppe sono incapaci di ordire una guerra moderna. Dov’è la sinergia tra forze di terra e aerei, perno di qualsiasi successo nella guerra del XXI secolo? L’aviazione russa fatica a coordinarsi con l’esercito. Solo adesso le sue sortite raggiungono la media di 200-300 al giorno. Ma la Nato, in Kosovo, mandava in battaglia quasi 500 aerei al giorno, in un teatro più piccolo. Ai russi mancano forse i mezzi? O latita una vera dottrina di guerra aerea? I problemi sono enormi, perfino basilari: le truppe del Cremlino sono poco motivate e disciplinate, non sono ben supportate né dal genio né dai treni logistici, vero sistema nervoso di ogni esercito. I materiali sono per lo più vecchi e mal tenuti, conseguenza della corruzione endemica dell’apparato militar-industriale del paese. Verrebbe da chiedersi che senso abbia il riarmo poderoso deciso da tutti i paesi occidentali all’indomani della guerra ucraina. Di fronte a un’“Armata rossa” lontana parente delle temibili divisioni sovietiche, basterebbe molto meno di quello che allineano già oggi gli eserciti della Nato. La guerra acceca la ragione. E le conseguenze le pagheremo presto tutti.
Francesco Palmas, Avvenire (10/5/2022)
lunedì 9 maggio 2022
In riva al mare
"Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso."
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926)
sabato 7 maggio 2022
End-game
Da qualche tempo corre — in Italia ma non solo — l’idea che nella vicenda ucraina non sia chiaro quale sia l’end-game, l’obiettivo finale, di Zelensky. E, subito dopo, degli americani. Lo sostengono esperti di politica internazionale, ambasciatori, politici. Dicono che l’obiettivo di Putin è chiaro ma quello di Kiev e della Nato per nulla: si chiedono a cosa puntino e fanno capire che non c’è una strategia. Questa domanda solleva il sospetto che la famosa «nebbia della guerra» abbia offuscato la visione di molti di questi commentatori che denotano, in buona fede o meno, un’incomprensione del conflitto in corso. L’end-game di Volodymyr Zelensky, infatti, è chiaro e dipende dalla caratteristica di quel che sta succedendo. Il conflitto in Ucraina non è una guerra tra Stati, tra Kiev e Mosca, tra due imperatori uno in un bunker dorato al Cremlino, l’altro in un bunker povero e sotto tiro. Si tratta della guerra di aggressione di una parte e della resistenza a questa brutalità dell’altra. Gli ucraini non vogliono finire sotto il tallone russo, che hanno provato per troppo tempo, e si difendono. Questo è l’end-game di Zelensky: non certo invadere la Russia, non certo arrivare a Mosca e a San Pietroburgo ma ripristinare la propria indipendenza violata. Violata tra l’altro attraverso massacri che rendono praticamente impossibile qualsiasi mediazione e ogni prospettiva di compromesso a breve. Per gli ucraini l’obiettivo è che Putin non riesca a realizzare i propri piani. Punto. Così fa chi si difende da un’invasione. Saranno poi gli scontri sul terreno a decidere se la resistenza ucraina ce la farà e fino a che punto, a quali costi. […]Ma l’obiettivo degli ucraini è chiaro: respingere gli invasori. Fondamentalmente, questo è lo stesso obiettivo degli Stati Uniti, dell’Europa, della Nato: non fare vincere Putin. Il che significherebbe costringerlo alla sconfitta: non si lancia un’aggressione del genere, brutale e senza alcuna motivazione, per poi tornare a casa con un pugno di mosche, fosse pure la conservazione della Crimea. […]…la debolezza dello Stato russo è già di fronte a tutti, nell’incapacità di piegare un Paese e una popolazione con molte meno risorse. Un’Armata che si riduce a sparare ai bambini, a mirare ai civili, a bombardare le case perché non riesce a raggiungere i suoi obiettivi militari è diventata il simbolo dell’inconsistenza e della vecchiezza del regime putiniano: inefficienza sostituita dalla brutalità. Un Paese e un esercito moderni non violentano le donne. La chiamata di Austin a indebolire Mosca e il Cremlino è un invito a rendere palese una tendenza in atto e a fare in modo che la Russia non sia una minaccia futura per l’Europa e per il mondo. Non è detto che gli ucraini ce la facciano. Ma armi per Kiev e sanzioni per Mosca è quello che ci chiedono. Per gli ucraini, l’end-game è chiaro e vogliono raggiungerlo. Il vero interrogativo riguarda l’end-game di Putin.
Daniele Taino, Corriere della Sera (6/5/2022)
mercoledì 4 maggio 2022
Carnefice
Cavaradossi:
Vittoria! Vittoria!
L'alba vindice appar
che fa gli empi tremar!
Libertà sorge, crollan tirannidi!
Del sofferto martîr
me vedrai qui gioir...
Il tuo cor trema, o Scarpia, carnefice!
Giacomo Puccini, Tosca - Atto II, Scena 4
lunedì 2 maggio 2022
Trend
Beppe Mora, da google.it |
domenica 1 maggio 2022
Playlist Aprile 2022
- Debbie Gibson, Negative Energys – (Anything Is Possibles – 1990) – Rinnovabile
- U2, Raised by Wolves – (Songs
of Innocence – 2014) – Bucha
- 30 Seconds to Mars, This Is War
– (This Is War – 2009) – I morti al balzo
- Giorgio Gaber, E pensare che c’era il pensiero – (E pensare che c’era il
pensiero – 1994) – Critica
- Koko Taylor, I Got What It Takes – (I Got What It Takes – 1975) –Il Paese del però
- Jarekus Singleton, I Refuse To Lose – (Refuse To Lose – 2014) – Modric
- Nina Simone, I Wish I Knew How It Would Feel to Be Free – (Silk & Soul – 1966) – La schiavitù e la prostituzione
- Sergio Cammariere, Dalla pace del mare lontano – (Dalla
pace del mare lontano – 2001) – La
pace
- Michael Bublé, Mother
– (Higher – 2022) – Madre
- Fenton Robinson, Somobody Loan Me a Dime – (Somobody Loan Me a Dime – 1974) – Aumenti
- Modena City Ramblers, Oltre il ponte – (Appunti partigiani – 2005) – Imperfetta
- Tom Waits, That Feel – (Bone Machine – 1992) – La rielezione di Macron
- Pharrell Williams, Gust of Wind – (G I R L – 2014) – Raffica di vento