Era bello una volta – appena un anno fa, ma sembra passato più tempo – vedere arrivare un treno in una stazione italiana. Non un Frecciarossa pendolare in tre ore fra Milano e Roma, ma un treno a lunga percorrenza in arrivo dal Sud, e meglio se sotto Natale, come adesso. Si era appena spento lo stridio metallico dei freni e le porte si aprivano, che già vedevi qualcuno che abbracciava con calore un viaggiatore, e poi la sua compagna, e poi il nipote, in un tramestio di valigie e di strette forti e «ben arrivati!». Poi, il gruppo familiare si allontanava compatto, a distanziamento zero, verso l’uscita. Non avremmo creduto che potesse cambiare: era sempre stato così, in Italia. Invece, se passi oggi dalla Centrale di Milano, quei pochi che arrivano vengono accolti con sagge e necessarie precauzioni – quando finalmente si riesce a riconoscersi, sotto alla maschera. Niente abbracci, baci meno che mai, nemmeno una stretta di mano. E i virologi sarebbero contenti, e davvero ora è giusto così, però viene da domandarsi: ma, una volta debellato il virus, riusciremo a tornare come prima? Torneremo italiani? Il dubbio viene perché, guardando i passanti per strada lontano dal centro e al di fuori delle compere natalizie, vedi una processione di volti rigorosamente con la maschera tirata su fino agli occhi, e bene attenta a mantenere nei negozi la distanza dagli altri, ma vedi anche qualcosa di più: una sotterranea paura che, nonostante ogni precauzione, il virus si insinui, contamini l’aria, magari nel fiato di due parole pronunciate da un altro cliente – due appena, perché in giro quasi non si parla più. E sono sguardi ostili se per sbaglio violi il metro di distanza, o peggio se la maschera ti scivola sotto la punta del naso. Per carità, giusto stare attenti. Ma certa animosità, certi toni inaspriti, o lo stringersi contro il muro quando un altro passa sul marciapiede, fanno pensare che il virus ci stia insegnando a vedere nel prossimo, prima di tutto, un pericolo, se non un nemico. Qualcosa che in questo Paese non abbiamo visto mai.
E, pure naturalmente obbedendo a ogni prescrizione anti contagio, è lecito domandarsi se, di seconda ondata in terza, una volta finita l’epidemia un fondo di diffidenza verso l’altro sconosciuto non ci resterà addosso; se guariremo da questo irrigidimento, da questa freddezza e quasi paura del prossimo, che del Covid sono un triste effetto collaterale. Non continueranno a difendersi gli anziani, i più minacciati, anche una volta sconfitto il virus? E i bambini che sono andati a scuola per la prima volta nel 2020, e per prima cosa hanno imparato che bisogna stare distanti l’uno dall’altro, dimenticheranno questo innaturale imprinting, e torneranno normali? Il timore, speriamo infondato, che l’epidemia ci stia insegnando anche un altro modo di stare in rapporto fra noi. I gesti, gli abbracci, la vicinanza fisica sono già una lingua, e una lingua universale. Noi italiani la parlavamo molto bene, generosamente, la bella lingua del corpo. Se ci ritrovassimo cambiati sarebbe un impoverimento, un altro segno lasciatoci addosso da questa ma-lattia globale. Auguriamoci allora anche, insieme alla fine dell’emergenza e dei lutti e alla ripresa dell’economia e del lavoro, una 'piccola' cosa per l’anno che viene: di poter ritrovare la semplice gioia di un abbraccio fra amici, e perfino solo di una stretta di mano, di quelle forti, vere. (Che nostalgia, sotto alle nostre maschere, ne abbiamo).
Marina Corradi, Avvenire (20/12/2020)
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