In un editoriale sul
Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia parla del problema delle regole
condivise. Le varie comunità islamiche residenti in Italia devono adeguarsi ai
valori del nostro testo costituzionale: “Prima di pensare a fare la guerra contro la minaccia islamista
fuori dai propri confini i Paesi europei farebbero bene a garantirsi innanzi
tutto la sicurezza delle proprie retrovie. La sicurezza di non essere colpiti
alle spalle da persone nate o cresciute sul proprio territorio. Che cosa vuol
dire? A me pare che oggi, e in questo particolarissimo tipo di scontro, la
sicurezza del territorio significhi due cose: innanzi tutto essere
ragionevolmente sicuri della lealtà costituzionale delle comunità musulmane
residenti qui in Italia — in genere in Europa. Al tempo stesso essere
ragionevolmente sicuri della loro disponibilità all’integrazione (dove è
evidente il legame sostanziale tra i due aspetti)”.
La religione ha senz’altro a
che fare con le attuali problematiche terroristiche e, quindi, è necessario non
ancorarsi su vecchie ipocrisie: “se ci
sono aspetti della religione islamica o del costume da essa influenzati che
sono in contrasto con i valori della nostra Costituzione, tali aspetti devono
essere inevitabilmente abbandonati o cambiati. Pena, in caso contrario,
l’essere combattuti anche con la durezza della legge”.(…) , oggi nelle comunità islamiche di
più o meno recente
immigrazione che si trovano in Italia (e in Europa) vigono sicuramente
consuetudini di vita e rapporti sociali che i fedeli considerano ispirate a
precetti religiosi (che forse le stesse autorità religiose considerano tali) ma
che sono evidentemente contrari ai valori della Costituzione della Repubblica
(oltre che in un buon numero di casi a delle leggi vere e proprie). Le più
importanti di queste consuetudini mi sembrano quelle legate al ruolo delle
donne: molto spesso tenute segregate in casa, impedite nella libertà di uscire
e di muoversi a loro piacere, impossibilitate quindi ad apprendere l’italiano,
oggetto di molteplici angherie. Ancora più oppressiva, come si sa, è in molti
casi la condizione delle giovani, alle quali troppo spesso s’impedisce di
proseguire gli studi, di frequentare i coetanei e viene imposto un rimpatrio
forzato preludio a matrimoni combinati contro la loro volontà, quando non
addirittura alla pratica delle mutilazioni genitali”.
Si continua su più fronti a parlare
di integrazione basata sul rispetto delle regole condivise ma poi non si riesce
a trovare valide soluzioni. I confronti e i dibattiti da soli non riescono a
partorire efficaci espedienti. Le autorità pubbliche non propongono degli
interventi legislativi in tal senso che, fra l’altro, potrebbero avere un forte
impatto di natura socio-culturale: “Una
cosa va fatta capire comunque con la necessaria chiarezza e senza falsi pudori
pseudodemocratici a chi arriva nel nostro Paese dalle terre dell’Islam: in
Italia non si può essere musulmani nel modo come lo si è in Iraq, in Senegal, o
in Eritrea. Lo si può essere solo in modo diverso: pena, per l’appunto,
saggiare la durezza della legge.
I messaggi di cui sto dicendo servono infine a un altro scopo ancora, forse ancora più
importante. Servono a evitare che di fronte alla grande migrazione in corso e a
quella ancor più grande che si annuncia, di fronte al terrorismo islamista, di
fronte all’arrivo di popolazioni così diverse avvertite come totalmente e
minacciosamente estranee rispetto alla storia, alla cultura e alle tradizioni
europee, le masse autoctone del continente si sentano totalmente indifese e
abbandonate dalle classi dirigenti democratiche attuali. E reagiscano
trovandosene altre, violente e intolleranti, ma decise in qualche modo a
prendere le loro parti, ad assumerne il punto di vista”.
Canzone del giorno: Rules (2001) - Shakira
Clicca e ascolta: Rules....Noi, l’Islam e il rispetto dalla legge
I seguaci di Allah che vogliono vivere in Italia non devono contrastare i valori della nostra Costituzione che difende il ruolo delle donne e la libertà di culto e conversione
Ernesto Galli della Loggia - Corriere della Sera del 25/3/2016
Prima di pensare a fare la guerra contro la minaccia islamista
fuori dai propri confini i Paesi europei farebbero bene a garantirsi innanzi
tutto la sicurezza delle proprie retrovie. La sicurezza di non essere colpiti
alle spalle da persone nate o cresciute sul proprio territorio. Che cosa vuol
dire? A me pare che oggi, e in questo particolarissimo tipo di scontro, la
sicurezza del territorio significhi due cose: innanzi tutto essere
ragionevolmente sicuri della lealtà costituzionale delle comunità musulmane
residenti qui in Italia — in genere in Europa. Al tempo stesso essere
ragionevolmente sicuri della loro disponibilità all’integrazione (dove è
evidente il legame sostanziale tra i due aspetti). Si tratta di due condizioni
importantissime che hanno a loro volta una conseguenza di grande portata ideale
e pratica: e cioé che se ci sono aspetti della religione islamica o del costume
da essa influenzati che sono in contrasto con i valori della nostra
Costituzione, tali aspetti devono essere inevitabilmente abbandonati o
cambiati. Pena, in caso contrario, l’essere combattuti anche con la durezza
della legge.
Non si tratterebbe in alcun modo di un trattamento discriminatorio verso l’Islam in quanto
adottato unicamente nei suoi confronti. È il medesimo trattamento, infatti, che
il Piemonte liberale adottò a partire dal 1850, lasciandolo poi in eredità al
Regno d’Italia, in armonia con quanto stava facendo tutto il liberalismo
europeo in quel secolo. Il governo di Torino, allora, con apposite leggi —
arrivando a rispondere con la prigione alle proteste del clero — cancellò il
foro ecclesiastico, la validità civile del matrimonio religioso, la «mano
morta», e altri aspetti che la Chiesa cattolica e molti suoi fedeli (per
fortuna non tutti) consideravano essenziali alla vita del Cattolicesimo. Ma che
in un modo o nell’altro costituivano invece dei privilegi o violavano
l’eguaglianza dei cittadini.
Ebbene,
oggi nelle comunità islamiche di più o meno recente immigrazione che si
trovano in Italia (e in Europa) vigono sicuramente consuetudini di vita e
rapporti sociali che i fedeli considerano ispirate a precetti religiosi (che
forse le stesse autorità religiose considerano tali) ma che sono evidentemente
contrari ai valori della Costituzione della Repubblica (oltre che in un buon
numero di casi a delle leggi vere e proprie). Le più importanti di queste
consuetudini mi sembrano quelle legate al ruolo delle donne: molto spesso
tenute segregate in casa, impedite nella libertà di uscire e di muoversi a loro
piacere, impossibilitate quindi ad apprendere l’italiano, oggetto di molteplici
angherie. Ancora più oppressiva, come si sa, è in molti casi la condizione
delle giovani, alle quali troppo spesso s’impedisce di proseguire gli studi, di
frequentare i coetanei e viene imposto un rimpatrio forzato preludio a
matrimoni combinati contro la loro volontà, quando non addirittura alla pratica
delle mutilazioni genitali.
Mi chiedo: è ammissibile che lo Stato italiano come del resto ogni altro Stato europeo
tolleri virtualmente queste vere e proprie isole di extra legalità? Che nessuno
abbia finora fatto nulla per cancellarle? Sta di fatto che finora non si è mai
saputo che una qualsiasi autorità di governo abbia sollecitato ai carabinieri e
alla polizia, ai servizi sociali sul territorio, alle procure della Repubblica,
un intervento in tal senso, organico, continuo, incalzante. Così come non
risulta che alcuna autorità abbia mai pensato finora a possibili interventi
legislativi specificamente mirati ai problemi di cui sopra. Con la necessaria,
eventuale, adozione di pene adeguate. Eppure un intervento del genere varrebbe
più di tanti discorsi a trasmettere in modo incisivo almeno tre messaggi
importantissimi: 1) in Italia si può essere di qualunque religione (o di
nessuna) ma a condizione che i precetti di tale religione o i costumi da essa
suggeriti non violino i principi di base della comunità politica nazionale; 2)
la violazione di tali principi comporta sempre sanzioni severe; 3) ogni
dimensione comunitaria è lecita purché rispetti però la libertà individuale
degli uomini e delle donne. Ogni vincolo religioso è subordinato a tale
libertà, e quindi è lecita la conversione religiosa come l’apostasia.
Non mi sembrano messaggi di poco conto. Essi aiuterebbero a far emergere o
rafforzare dentro l’Islam una visione dell’Islam stesso liberale e conciliabile
con la modernità. Varrebbero poi soprattutto a rompere l’isolamento sociale e
il discorso culturale totalmente autoreferenziale in cui troppo spesso sono rinchiuse
non solo quelle comunità ma specialmente quelle unità familiari. Si tratta di
un elemento decisivo anche ad un altro fine: se non si verifica la rottura
anzidetta, che razza d’integrazione potrà mai esserci? Una cosa va fatta capire
comunque con la necessaria chiarezza e senza falsi pudori pseudodemocratici a
chi arriva nel nostro Paese dalle terre dell’Islam: in Italia non si può essere
musulmani nel modo come lo si è in Iraq, in Senegal, o in Eritrea. Lo si può
essere solo in modo diverso: pena, per l’appunto, saggiare la durezza della
legge.
I messaggi di cui sto dicendo servono infine a un altro scopo ancora, forse ancora più
importante. Servono a evitare che di fronte alla grande migrazione in corso e a
quella ancor più grande che si annuncia, di fronte al terrorismo islamista, di
fronte all’arrivo di popolazioni così diverse avvertite come totalmente e
minacciosamente estranee rispetto alla storia, alla cultura e alle tradizioni
europee, le masse autoctone del continente si sentano totalmente indifese e
abbandonate dalle classi dirigenti democratiche attuali. E reagiscano
trovandosene altre, violente e intolleranti, ma decise in qualche modo a
prendere le loro parti, ad assumerne il punto di vista. La partita che oggi si
è iniziata a giocare ruota intorno a questa alternativa, non illudiamoci: se da
qui a qualche decennio l’Europa assomiglierà ancora a quella che noi
conosciamo, o se invece comincerà ad avere i contorni di quella che più o meno
accarezzava nei suoi sogni un certo Adolf Hitler.